L’intesa Pd-5 Stelle l’alleanza (e un po’ di dubbi)

 

di Paolo Mieli

 

Il governo che tra oggi e domani presumibilmente riceverà la fiducia delle Camere è nato — lo abbiamo ribadito più volte — sulla base di procedure costituzionalmente impeccabili. L’integrazione programmatica tra M5S, Pd e Leu, ancorché su un’impostazione molto generica, è stata raggiunta in un battibaleno. Inoltre il nuovo esecutivo gode ora di un rispetto internazionale che mancava pressoché del tutto alla precedente compagine. All’attuale governo resta, tuttavia, come duplice non irrilevante pecca, un’evidente immagine che richiama la tradizione del trasformismo italiano e un altrettanto evidente deficit di legittimazione popolare. Ci sarà così un’infima minoranza di italiani (destinata però, nel tempo, a crescere) che continuerà a nutrire un dubbio: siamo sicuri che non sarebbe stato meglio far battezzare dal popolo l’incontro tra centrosinistra e Movimento Cinque Stelle? In altre parole: non sarebbe stato preferibile far ottenere a queste forze quel genere di consacrazione che si riceve solo dall’aver preso parte a una competizione elettorale? In fondo, vista la voluttà con cui M5S, Pd e Leu si sono gettati nel giro di pochi giorni l’uno nelle braccia dell’altro, sarebbe stato agevole dar vita a una coalizione capace di sfidare il centrodestra anche in elezioni ravvicinate. E, potendo disporre di tale nuova alleanza, il fronte Pd, M5S, Leu sarebbe stato in grado di dare del filo da torcere a Matteo Salvini in una competizione elettorale dall’esito quantomeno incerto.

Ma forse è proprio questo il punto: se si può ottenere un risultato certo percorrendo — senza violare alcuna regola della democrazia rappresentativa — le vie parlamentari, perché mettere in gioco quell’esito sicuro, in una gara dalla quale si corre il rischio di uscire sconfitti? Meglio, molto meglio cogliere un’occasione come quella presentatasi a metà agosto con il passo falso di Salvini e non darsi pena del consenso degli elettori. Che, forse, verrà in seguito.

Ma si presenterà, un giorno o l’altro, l’occasione di andare a cercarlo, quel consenso, nelle dimensioni che rendono possibile un governo? Improbabile. In margine al dibattito sul taglio dei parlamentari si va infatti consacrando il dogma secondo il quale l’unico modo di ovviare alle anomalie prodotte da quel taglio consisterebbe nella reintroduzione di un sistema proporzionale. Il presupposto è giusto: se si procedesse a una riduzione degli eletti nelle due Camere mantenendo il sistema elettorale così come è, si produrrebbero alcune distorsioni ipermaggioritarie. Ma le conseguenze che si traggono da questa premessa sono alquanto opinabili. Ci sono al mondo molti Paesi che hanno un numero di parlamentari inferiore al nostro e che funzionano senza che nessuno abbia avvertito la necessità di ricorrere a sistemi proporzionali. Tale metodo di voto — che oggi da noi è tornato a godere di un consenso pressoché generale (allo stesso modo in cui fu quasi unanime venticinque anni fa l’adesione al sistema maggioritario) — serve a far sì che il maggior numero di partiti ottenga rappresentanza in Parlamento ma che, all’atto definitivo, nessuno di loro vinca davvero e nessuno perda. E che, di conseguenza, mai più gli elettori, tranne in casi eccezionali, avranno l’opportunità di votare oltre che per il loro partito anche per una coalizione di governo. Gli eletti saranno mandati in Parlamento e, una volta lì, si alleeranno o saranno costretti ad allearsi secondo infinite combinazioni, comprese le più contraddittorie e bizzarre. Ogni partito, soprattutto in vista di turni elettorali anche parziali (cioè sempre), si sentirà autorizzato a promettere elargizione di danari pubblici. Spesa, spesa e ulteriore spesa. Per nessuno scoccherà mai l’ora della riduzione del debito. Pagheranno i posteri e tutti vivranno, per un po’, felici e contenti. Ma solo per un po’. La stagione in cui la comunità internazionale ci consentirà di spendere, spendere e ancora spendere non è destinata a durare in eterno. Presto torneremo a farci tra noi discorsi simili a quelli dei primi anni Novanta in cui scoprimmo il danno provocato dall’aver reso i partiti irresponsabili. E non è tutto.

Nello scegliere il sistema proporzionale si sottovaluta il fatto che gli italiani da un quarto di secolo hanno introiettato il concetto che quando ci si reca alle urne lo si fa anche per decidere chi debba governare. A maggior ragione come conseguenza del fatto che negli enti locali si continua a votare per sindaci e governatori ai quali, se non avranno incidenti di percorso, sarà concesso di restare al comando per i successivi cinque anni. Sicché, alla lunga potrebbe rivelarsi frustrante per gli elettori dover constatare che su scala nazionale — a differenza di quel che continua ad accadere in Comuni e Regioni — ai partiti «vincitori» pur nell’eventualità che abbiano ottenuto la maggioranza relativa dei consensi potrebbe capitare di essere esclusi dal governo (nel quale riuscirebbero invece a entrare rappresentanti di formazioni reduci da sconfitte). Ma torniamo ad ora.

È comprensibile il tripudio del centrosinistra che quest’estate ha avuto l’insperata opportunità di partecipare alla creazione di una maggioranza di governo (ripetiamo: costituzionalmente inappuntabile) avente come vero, unico collante quello di mettere fuori gioco il competitore. Gioia accresciuta dalla circostanza che l’avversario aveva aperto lui stesso la crisi con l’intento di dare una spallata al sistema. Più preoccupante sarebbe però veder adesso nascere, sull’onda di questo entusiasmo, una legge elettorale che avesse come fine quello di perpetuare la vittoria d’agosto all’infinito. A maggior ragione perché il centrosinistra, per mettersi di traverso all’affermazione di Salvini o di chi dovesse prenderne il posto, impedirebbe anche a sé stesso di vincere una volta o l’altra. Scoraggerebbe poi — al di là dell’immediato, vale a dire le elezioni regionali di fine ottobre in Umbria e Calabria — la creazione di quel fronte stabile con i grillini di cui avrà bisogno in vista delle future competizioni in Comuni e Regioni. E non si può confidare sempre nell’improvvisazione o in un’estate (per loro) fortunata come quella del 2019.

 

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