di Angelo Panebianco
Quando l’ambiente internazionale diventa minaccioso, la classe dirigente di un Paese dovrebbe creare un fronte unito per orientare l’opinione pubblica. Ma ciò può accadere solo in un mondo ideale, lontano da quello reale. Alcuni Paesi, con una tradizione di coesione nazionale, si sono in passato avvicinati un po’ all’ideale. Altri ne sono sempre rimasti distanti. Per decenni, guardando alle nostre esasperate divisioni, certi osservatori si sono chiesti se sia mai esistito un «interesse nazionale italiano», un insieme di stabili obiettivi in relazione al mondo esterno che la classe dirigente condividesse a prescindere dai suoi conflitti.
Se la domanda è posta in questi termini la risposta deve essere affermativa: sì, esiste un interesse nazionale italiano e c’è un corpo diplomatico di buona qualità che si sforza
di tutelare con continuità quell’interesse chiunque sia di volta in volta al governo. Ciò che ci ha insegnato il ventennio e passa seguito alla fine della Guerra fredda, e nel quale abbiamo sperimentato la frequente alternanza al governo di sinistra e destra, è che, a ogni cambio di maggioranza, mutano gli stili comunicativi, qualche alleanza internazionale diventa più stretta, qualche altra si allenta, ma il «cuore» della politica estera non cambia radicalmente.
Tutto bene dunque? Non proprio. Ci sono due limiti.
Il primo è che le nostre convergenze interne sulla politica estera sono spesso occulte. La classe politica disorienta l’opinione pubblica fingendo divisioni dove non ci sono, occultando le convergenze, e in definitiva vergognandosene.
F acciamo tre esempi. Senza voler formulare giudizi di merito appare chiaro che Renzi, Berlusconi e Salvini (ma probabilmente anche Vendola, la Boldrini, eccetera) la pensano più o meno allo stesso modo su Putin. Ma non lo ammetterebbero nemmeno sotto tortura. Cosa pensano? Pensano che con la Russia bisogna venire a patti, punto. Alla faccia di quei prepotenti degli americani. Se l’Ucraina non ne esce stritolata, meglio. Altrimenti, pazienza. L’Italia ha pagato un prezzo troppo alto, in termini di mancate esportazioni, per le sanzioni alla Russia. E ciò dovrà finire. Chi è all’opposizione è più libero di fare sfoggio della propria russofilia. Chi è al governo deve fare anche i conti con Obama, la Merkel, eccetera. Ma è chiaro che, in materia di Russia, esiste una definizione condivisa di cosa sia l’interesse italiano.
Secondo esempio. Gli italiani sono entusiasti dell’accordo nucleare sull’Iran. Gli affari sono affari e l’accordo schiude anche per gli italiani verdi pascoli, dorate praterie. Del resto, tutti i governi italiani sono sempre stati attenti alle esigenze iraniane.
Terzo esempio. Gheddafi. Al tempo della guerra occidentale contro il dittatore libico alcuni iper-faziosi qui da noi salutarono con favore quell’intervento militare perché lo ritenevano (scioccamente) un colpo contro Berlusconi. Si trattava di distruggere l’amico di Berlusconi, quello a cui l’odiato Cavaliere aveva baciato l’anello. Ma Gheddafi non era un «famiglio» di Berlusconi, era un famiglio dell’Italia. Con lui, sia la destra che la sinistra avevano sempre cooperato. Anche in relazione alla Libia, è sempre esistito un (occultamente) condiviso interesse nazionale.
Se il primo limite è che laddove c’è comune riconoscimento dell’interesse nazionale manca la volontà di ammetterlo, il secondo è dato dalla sottovalutazione dei problemi della sicurezza. Accomuna destra e sinistra. La destra pare preoccuparsene solo in relazione all’immigrazione, il che è assai riduttivo.
Ma sulla sicurezza intesa in senso lato, tolti coloro che se ne devono occupare per ruolo (ministri degli Esteri e della Difesa, diplomatici, apparati della forza), la disattenzione è massima a tutte le latitudini politiche. Nei convergenti atteggiamenti italiani sulla Russia, ad esempio, le considerazioni sulla sicurezza (che fare con una Russia la cui nuova dottrina strategica indica nell’Occidente il principale nemico?) hanno un ruolo secondario.
Anche nel caso dei rapporti con l’Iran la sicurezza non pare in cima alle preoccupazioni italiane. Nonostante le dichiarazioni in senso contrario: l’Iran, si dice, aiuterà a colpire lo Stato islamico. Forse, ma perché non chiedersi anche quale sarà l’effetto sul mondo sunnita dell’alleanza fra i crociati e gli eretici sciiti contro il Califfo, sunnita pure lui? In questo clima è merito di Renzi essere volato in Israele, proprio dove la nuova libertà di manovra che l’accordo regala all’Iran può generare i più gravi rischi esistenziali.
Solo nel caso della Libia, possiamo forse dire, le preoccupazioni per l’interesse economico e per la sicurezza sono sempre stati appaiate, anziché divergenti (ai tempi di Gheddafi come oggi). E si capisce, data la vicinanza geografica e i legami storici, e il rischio che la dissoluzione dello Stato libico fa correre all’Italia.
Gli eccezionali settant’anni di pace che l’Europa ha alle spalle hanno fatto perdere di vista a tanti europei il fatto che la pace è un bene precario che richiede di essere coltivato investendo di continuo in politiche della sicurezza. Questa consapevolezza è ancora minore in Italia dove a lungo si è creduto che l’interesse italiano fosse una cosa e la sicurezza un’altra, dato che di quest’ultima (fino ad oggi appaltata agli americani via Nato) si sarebbe occupata un giorno l’Europa. Ma la rinazionalizzazione degli interessi dei Paesi europei impone anche all’Italia meno opacità e meno amnesie. Possibile che né a destra né a sinistra si trovi oggi il modo di discutere della Nato e del ruolo italiano in essa? Non siamo speciali: anche per noi, come per tutti, difendere l’interesse nazionale significa conciliare affari e sicurezza.