Stefano Boeri anticipa “Unknown, Unknowns” tema della XXIII Esposizione Internazionale
di Lara Crinò
È un mondo incerto, spezzato quello di oggi, un mondo a cui manca la visione del futuro. Ma rassegnarsi all’orizzonte corto del presente è l’unica via possibile o l’arte e la scienza, insieme, ci offrono un’altra prospettiva, proprio a partire da quello che con la pandemia ci siamo accorti di non sapere? Si sviluppa da questi interrogativi il progetto della XXIII Esposizione Internazionale che sarà alla Triennale di Milano dall’1 marzo al 30 agosto 2022: il presidente Stefano Boeri ne anticipa a Repubblica titolo e temi. Si chiamerà Unknown, Unknowns: un omaggio alla “parte sconosciuta” dell’universo micro e macro, al lato ignoto che ci spaventa e che tuttavia può invece diventare il terreno fertile di un incontro tra discipline diverse. E un vero invito a riprogettare quel che verrà su basi nuove.
Dimitri Kerkentzes, segretario del Bureau international des expositions del quale Triennale, unica istituzione italiana, fa parte, definisce già Unknown, Unkowns «una piattaforma unica e trasparente» che ci permetterà di «farci le domande che non conosciamo». Stefano Boeri chiarisce perché e come la nostra fragiltà attuale può trasformarsi in uno strumento di crescita. Senza smettere di credere in quella che chiama «cultura antropocentrica del progettare», e con una nuova fiducia in quelle che sono le « capacità autocritiche e riparative» di quella stessa cultura. Per guardare il futuro con occhi nuovi, non immobili.
Il titolo dell’Esposizione del 2019 era “Broken Nature”: che filo c’è tra quella riflessione sul rapporto con la natura, rivelatasi profetica, e il nuovo progetto per il 2022?
«Nell’incertezza è importante trovare delle radici culturali su cui lavorare. Questa pandemia ci lascia la sensazione di una fragilità di specie. Fragilità per non aver saputo prevedere quel che accadeva, per non averlo saputo affrontare. Il tema ora è come trasformare questa fragilità non in disperazione, ma in una ragione per immaginare un rapporto diverso con il mondo, con il futuro, con la natura. Noi veniamo da un’Esposizione, la XXII, che era centrata proprio sullo squilibrio nel nostro rapporto con la natura. Con Broken Nature abbiamo raccontato come abbiamo compromesso, distrutto, deforestato l’ambiente naturale. Ma il tempo presente e l’epidemia del coronavirus ci hanno messo di fronte al fatto che la natura è dentro di noi, perché il virus è cresciuto dentro la specie umana.
Come ho detto al simposio del marzo scorso, che è stato il primo passo verso la nuova edizione del 2022, il grande equivoco della nostra cultura ambientale sta nella relazione oppositiva o distintiva tra la sfera dell’umano e la sfera della naturalità vivente. È tempo di cambiare prospettiva».
Ci serve un’altra visione?
«Quel che sta accadendo ha già capovolto la visione. Ci ha mostrato che la dimensione di ciò che noi non conosciamo è ancora gigantesca. Ci siamo detti che la grande sfida forse è proprio questa, cercare di esplorare il mondo sconosciuto».
Questo “Unknown, Unknowns”, la parte sconosciuta, i mondi sconosciuti a cosa si riferisce?
«Per sviluppare l’idea abbiamo costruito una rete in cui si incontrano arte e scienza. Tra i nostri interlocutori la Fondation Cartier, con cui Triennale ha avviato una lunga partnership che durerà otto anni; l’Esa, l’agenzia spaziale europea; il Cern di Fabiola Giannotti; Hans Ulrich Obrist che è a capo della Serpentine Gallery di Londra; l’architetto e designer Joseph Grima, direttore della scuola di Eindhoven; Matthew Claudel del Mit di Boston; il team della Tongji University di Shangai; il Maxxi di Roma. Gli spunti arrivano da tutti questi soggetti.
L’astrofisica Ersilia Vaudo Scarpetta dell’Esa, ad esempio, ci ha detto che conosciamo il cinque per cento dell’universo visibile. L’oceanografa Nadia Pinardi ci ha raccontato che conosciamo solo il cinque per cento di quello che c’è negli Oceani. Io, da urbanista, posso dire le città occupano quasi il 5 per cento delle terre emerse. Ma anche quel 5 per cento, in realtà, è una parte di un insieme molto più vasto. Il tema di fondo della XIII sarà esplorare non solo quello che non sappiamo, ma quello che non sappiamo di non sapere, che è ancora di più».
Come facciamo ad affrontare l’ignoto?
«Per imparare davvero da questa pandemia, dobbiamo riflettere sul fatto che la nostra specie non è staccata dalle altre specie viventi. Il messaggio chiaro del processo di spillover, come ci ricorda il filosofo Emanuele Coccia, è che siamo un pezzo di una catena, che è quella della vita, che ci accomuna alle altre specie. La sfida che abbiamo posto con Broken Nature e che continueremo a porre con Unknown, Unknowns è proprio questa: è il momento non solo di prendersi cura delle altre specie viventi, ma di capire qual è il loro punto di vista. Ci serve un doppio movimento».
Siamo noi la specie che deve fare il salto evolutivo?
«Dobbiamo decentrarci, imparare ad assumere lo sguardo dell’altro — quello di ogni specie vivente — come risorsa per agire nel mondo. Se riusciamo in questo decentramento, riusciremo a trasformare la fragilità nella forza di una nuova intelligenza di specie. E questo si può fare solo con una “interferenza” tra i saperi».