Si vedrà presto se la “tregua umanitaria” in Siria dichiarata dal Consiglio di sicurezza sarà effettiva, o se servirà solo come parafulmine per scaricare la tensione internazionale accumulatasi attorno ai morti di Ghouta. Intanto sui vari fronti la guerra continua e continuerà dopo la tregua. «La situazione è normale, il bombardamento continua»: è questa la descrizione di un giornalista siriano sul fronte di Afrin al trentesimo giorno dell’avanzata turca.
Lo stesso giorno, a Monaco, durante la Conferenza per la sicurezza, il ministro Sigmar Gabriel ha fatto l’ennesimo, ridondante, punto diplomatico: «Dobbiamo lavorare insieme per raggiungere soluzioni politiche in Siria e nello Yemen. È l’unico modo che abbiamo per aiutare le persone distrutte dalla guerra civile. È l’unico modo per opporci con successo all’egemonia iraniana nella regione», ha soggiunto. In questa sequenza di fatti e di parole si possono cogliere due elementi interessanti per spiegare la persistenza, anzi l’acuirsi, delle due devastanti guerre che infuriano da anni in Yemen e Siria.
Il primo è la perdurante descrizione diplomatica di queste guerre come se fossero guerre civili. Questo accadde per la guerra di Bosnia (1992-1995) e accade oggi per la guerra siriana e quella yemenita. Entrambe vengono rappresentate attraverso il topos della guerra civile, il conflitto tra fazioni interne come prima causa e problema. Ciò occulta il fatto altrettanto importante, se non più importante, che quelli in corso sono anche, se non soprattutto, conflitti tra fazioni esterne, ossia tra potenze impegnate a combattersi su quei fronti tramite alleati locali. Le loro cause sono tanto interne quanto internazionali.
Il ministro Gabriel ha offerto però, al tempo stesso, una peculiare descrizione proprio della dimensione internazionale delle guerre siriana e yemenita. Lo ha fatto richiamando tutti all’opposizione «all’egemonia iraniana nella regione». È questo il secondo elemento interessante – anzi il primo dal punto di vista politico – esaltato alla Conferenza di Monaco anche dal colpo di teatro di Benjamin Netanyahu, oratore con un relitto di metallo in mano: «In nessun luogo le ambizioni belligeranti dell’Iran sono chiare come in Siria. L’Iran spera di creare un impero contiguo, unendo Teheran a Tartus, il Caspio al Mediterraneo».
Questa condivisa visione demonologica della politica internazionale, nella quale esiste un unico responsabile delle guerre in corso, ha così segnato la scena monegasca. Essa trascura, però, almeno due fatti principali. Il primo è che la dimensione internazionale della guerra siriana è assai più ampia delle ambizioni iraniane e concerne gli interessi frustrati di almeno una decina di potenze, ognuna delle quali oggi innesta la propria fallimentare condotta bellica nei reciproci conflitti politici con tutte le altre, dopo il tracollo delle ambizioni di ciascuna. Ciò spiega l’acuirsi di una guerra nella quale il Daesh era un fattore, e non il più importante, delle complesse equazioni politiche. Il secondo fatto concerne invece un’equazione umana assai più semplice ma che non interessa quasi nessuno: la morte sistematica di civili non belligeranti. Talché la natura più intima e reale della guerra siriana è stata colta in questi giorni dal segretario Guterres: «l’inferno sulla Terra».
È questa l’unica visione demonologica appropriata della guerra in corso e riguarda non uno ma tanti interlocutori. Non solo i governi delle potenze principali in bancarotta politica, ma tutti quelli che Kant evocava nel suo trattato sulla Pace perpetua. C’è un passo che oggi suona più che mai beffardo: «Siccome ora in fatto di associazione […] di popoli della Terra si è progressivamente pervenuti a tal segno, che la violazione del diritto avvenuta in un punto della Terra è avvertita in tutti i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma una necessaria integrazione del codice non scritto». In realtà oggi come ieri non c’è nulla di necessario in quest’idea e la Siria resta un posto diverso da quello che dovrebbe ospitare il genere umano, «l’inferno sulla Terra». Il resto dei popoli non lo avverte però come un’urgenza. Persino la sistematica violazione del pragmatico diritto bellico – non dell’astratto diritto cosmopolitico – è sostanzialmente irrilevante per le opinioni pubbliche. Nessuna manifestazione, nessuna mobilitazione, nessuna azione significativa reclama il ripensamento delle fallimentari tattiche belliche costruite sul vuoto politico. Tanto meno si reclama la fine di una carneficina che da anni è la più intensa violazione del «codice non scritto»: il diritto alla vita. Il fatto che ciò ci lasci indifferenti non parla di Kant e delle guerre combattute per le presunte ambizioni altrui. Parla più di noi e delle nostre poche ambizioni.