TERESA MARCHESI
È arrivata la riscossa delle vendite online, che nella lunga notte del Covid hanno premiato in proporzione i piccoli editori più ancora dei grandi. Oggi, con molto ritardo, si prende atto della dipendenza crescente dell’universo delle immagini da quello della pagina scritta.
- All’ultima Mostra di Venezia L’evenement di Annie Ernaux, La figlia oscura di Elena Ferrante e Il potere del cane di Thomas Savage sono stati cibo da Leoni. Chi ha fatto incetta di premi César se non Honoré de Balzac, per interposta persona?
- Perfino dietro l’en plein degli Oscar tecnici 2022 a Dune c’è la penna di Frank Herbert.
Entità giurassica, archiviata con i fantasmi del secolo scorso: le sibille dei terremoti epocali hanno celebrato con troppa furia le esequie del libro e dei suoi fruitori. Poi è arrivata la riscossa delle vendite online, che nella lunga notte del Covid hanno premiato in proporzione i piccoli editori più ancora dei grandi. Oggi, con molto ritardo, si prende atto della dipendenza crescente dell’universo delle immagini da quello della pagina scritta. È un processo che si è consolidato negli ultimi decenni e che getta un ponte tra i due belligeranti che si contendono l’immaginario collettivo, le serie arrembanti cioè e l’acciaccato cinema tradizionale. Netflix si è vista costretta a creare una sezione specifica per le serie tratte da libri: è un bollino di garanzia, sono le più gettonate. E la letteratura in trasposizione conquista i podi più prestigiosi del cinema.
All’ultima Mostra di Venezia L’evenement di Annie Ernaux, La figlia oscura di Elena Ferrante e Il potere del cane di Thomas Savage sono stati cibo da Leoni. Chi ha fatto incetta di premi César se non Honoré de Balzac, per interposta persona? Perfino dietro l’en plein degli Oscar tecnici 2022 a Dune c’è la penna di Frank Herbert.
I primi schermi di Cannes 75 profumano dolcemente di letteratura. Sarà anche un segnale di carestia nel vivaio degli sceneggiatori, ma francamente non piange nessuno. I romanzi, se non li sciupi riadattandoli, sono un enorme valore aggiunto. Cosa conta in un film?
Tre cose, diceva Marcel Carné: «Premier: le scénario. Deuxième: le scénario. Troisième: le scénario». Le parole contano (questo lo dice Nanni Moretti). Tra i primi titoli in concorso a Cannes c’è Le otto montagne, storia italiana, attori italiani, coproduzione italo-franco-belga, registi belgi, Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch.
FUORI NORMA
I due avevano firmato dieci anni fa (lei solo sceneggiatrice) un film notevole come Alabama Monroe – Una storia d’amore. Dietro Le otto montagne c’è il romanzo omonimo di Paolo Cognetti, premio Strega 2017. Produzione pressoché proibitiva sulla carta, perché vero protagonista è il sentimento delle vette, degli alpeggi in alta quota, dei laghi segreti della valdostana Val d’Ayas, dominata dal monte Rosa, che è il luogo dell’anima dello scrittore.
Ne risulta un film fuori norma: ci volevano due belgi per raccontare bene una storia italiana? È una benedizione la coppia riunita di Luca Marinelli e Alessandro Borghi, qui in simbiosi di sottrazione. Tornano insieme sette anni dopo Non essere cattivo, e la chimica non è un’opinione.
Scrive Cognetti che «l’amicizia è un luogo dove metti radici e che resta ad aspettarti». È la chiave del racconto, e fa tutt’uno con la montagna, che è fatica e conquista, per chi la conosce davvero. Fisico e lirico insieme, è un film che “respira” le altitudini, come il romanzo, forse perché bisogna sottrarsi all’“umore nero” delle città (cito ancora Cognetti) per riconoscere gli elementi primari che guidano le nostre rotte.
Solo quelli di città parlano di natura, spiegherà acutamente il personaggio di Bruno (Borghi), che alla montagna appartiene per destino e vocazione. I montanari indicano quello che vedono: le cime, i boschi, il lavoro pesante e senza respiro negli alpeggi.
CANNES PRIGIONIERO
Passando a Le vele scarlatte, che Pietro Marcello ha tratto dal romanzo di Alexandr Grin e che inaugura in grande spolvero la Quinzaine des réalisateurs, vengono a galla i grumi del militarmente corretto che assedia il festival fin dalle prime battute.
«Grin era un dissidente», si affannano a precisare regista e sceneggiatore. Grin è morto nel 1932. Non è che se uno è russo è in automatico amico di Putin e sta massacrando gli ucraini. Tanto eccesso di scrupoli è un trend inquietante.
La soppressione del corso universitario su Dostoevskij è memoria recente. Aleksandr Stepanovich Grinevskij è stato davvero perseguitato dalla Russia zarista e poi ripudiato da Stalin, era un socialista rivoluzionario di inizio secolo, romantico e pacifista. Ma tutto quello che è russo oggi necessita di pubbliche giustificazioni.
Non basta il comizio-fiume di Volodymyr Zelensky alla cerimonia di apertura, che neanche Fidel buonanima ai suoi tempi d’oro. Non basta il cambio in corsa del titolo che inaugura il festival sulla Croisette, che in origine era “Z” ma è stato commutato a velocità record in un più innocuo “Coupez!”, a scanso rivolte.
Quello di Michel Hazanavicius è un film di zombie, fa ridere, sta alla guerra come il filo interdentale al naufragio del Titanic. Ma le sensibilità dominanti sono al diapason. E in fatto di zelo Cannes aspira al primato: la fantasia suggerisce falò sur la plage di copie di Zorro e la mimetica come tenue de soirée.
Più di qualcuno diserterà per esaurimento emotivo il documentario postumo strappato al fronte di guerra, Mariupolis 2, del lituano Mantas Kvedaravicius, ucciso in aprile in Ucraina: siamo tutti dalla parte dei buoni, ma lasciateci tirare il fiato. Batti e ribatti, la propaganda di parte è così martellante che finisci per sentirti come il Jim Carrey di Truman Show nel manifesto di Cannes 75: prigioniero di una rappresentazione in scala della realtà che non puoi controllare. Anche la causa più nobile soffre di tanto spiegamento retorico.
GRINLANDIA DI FANTASIA
Divagavo. Forse. Torno a Le vele scarlatte, che è una fiaba (quasi) musicale decisamente ispirata, una libera rilettura di Grin in cui lo scrittore, a un secolo di distanza (il romanzo è del 1923) riconoscerebbe senz’altro la sua Grinlandia di fantasia, ricalcata sulla Crimea del suo esilio e trasferita da Pietro Marcello nella Piccardia contadina post Grande Guerra.
Marcello domina l’arte di lavorare sui materiali d’archivio e di integrarli magistralmente al nuovo girato, arte affinata attraverso i documentari e applicata in modo esemplare nel suo Martin Eden.
Il soggiorno francese gli ha portato in dote un cast iperclassy (Louis Garrel, detto anche Monsieur Partout per la sua prezzemolesca presenza nei film, le iconiche Noémie Lvovsky e Yolande Moreau, oltre alle rivelazioni Juliette Jouan e Raphael Thiéry) e il profumo e la grazia di certo vecchio cinema d’oltralpe.
L’uso delle canzoni è una personale dichiarazione d’amore del regista a Jacques Demy, a film come Les parapluies de Cherbourg e Une chambre en ville, che gli ricordano l’operetta popolare italiana. Ma l’inizio del film, con Raphael Thiéry reduce dalle trincee che torna al paese piagato nel corpo e nello spirito, restituisce come una folgorazione il Michel Simon di Boudu sauvé des eaux, un Renoir di purissimo culto.
COMUNITÀ DI REIETTI
È una storia rurale fuori dal tempo che aggrega, a vario titolo, una comunità di reietti, una corte dei miracoli emarginata e vilipesa dai paesani. Raphael, mani da poeta in un corpaccione da orco, alleva tra molti stenti la figlia Juliette nella fattoria in rovina di Noémie Lvovsky. Scrive Grin che «si possono fare veri miracoli con le proprie mani»: il padre falegname fabbrica giocattoli meravigliosi, la figlia povera e bella scoprirà la strada della musica e del canto, passepartout per le “vele scarlatte” che la trasporteranno, secondo la profezia di una strega boschiva, verso un futuro migliore.
Da fiaba moderna e morale, ruota intorno alle donne: streghe per i benpensanti, carne da stuprare, vittime di femminicidi impuniti, portatrici di dignità, coraggio e misericordia, anticonformiste per istinto.
Una poesia di Louise Michel, eroina fulgida della comune di Parigi, diventa canzone. Ma a sedurre davvero sono le ragioni di Pietro Marcello nel suo ricorso, così sofisticato, ai materiali d’archivio. Qui usa immagini rare dell’armistizio nella Baie della Somme e pochi fotogrammi di Au Bonheur des Dames, un Julien Duvivier del 1930.
«Perché sono profondamente contrario – sostiene – ai budget vergognosi dei film storici patinati. Vale la pena di spendere tanto per fare cinema? È una scelta etica? Non si può ottenere la stessa emozione usando filmati d’epoca? Non è meglio spendere quei soldi per costruire scuole e ospedali?».