di Claudio Magris
A lcuni mesi fa ho chiesto a un mio amico, funzionario dell’Unione Europea e da tempo impegnato nella commissione Difesa, se esiste un esercito europeo. Sì, mi ha risposto. Ma mezzo minuto dopo ha aggiunto: No. Probabilmente avrà pensato al lambiccato groviglio di suddivisioni di compiti e funzioni — in ogni settore — tra i vari Stati, alle alternanze di gerarchie, ai bilancini di competenze, ai paralizzanti codicilli miranti a impossibili equilibri perfetti tra le singole componenti. Tutto ciò, per quel che riguarda l’organizzazione militare, gli sembrava troppo diverso da quello che deve essere un esercito, formato, nel caso sciagurato di una guerra, per agire in quest’ultima con rapidità, efficacia e determinazione. Alcune buone prove date in occasione di interventi delle forze armate, a cominciare da quelle italiane, non bastano per poter parlare di un esercito europeo, come si parla invece di esercito inglese, francese o americano. È vero che le nuove modalità dei conflitti mettono in difficoltà pure gli eserciti veri e propri, come dimostra la guerra nell’Afghanistan, che sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale. Come non c’è un vero esercito europeo, è lecito chiedersi se esista una vera compagine politica europea o se l’Unione Europea assomigli troppo all’Onu e alla sua impotenza a risolvere problemi e contese. Forse essa assomiglia ancora di più al Sacro Romano Impero nei suoi ultimi decenni, coacervo politico-giuridico di autorità sovrapposte e contraddittorie, di poteri che si sommavano e si elidevano a vicenda, ciò che rendeva il venerando e grandioso impero, teoricamente senza confini, un assemblaggio paralizzato e paralizzante, che Goethe si chiedeva come potesse tenersi insieme e cui infatti Napoleone pose fine con un soffio, come si spegne una candela. Un’Europa politicamente unita può esistere solo se esiste — se e quando esisterà — un vero Stato europeo, federale e decentrato ma con un reale unico governo eletto da tutti i cittadini europei, come il presidente degli Stati Uniti è eletto da tutti i cittadini americani, e le cui leggi fondamentali valgano per tutti. Uno Stato in cui gli attuali Stati nazionali diventino quelle che sono oggi, in ogni singolo attuale Stato, le Regioni, con i loro Consigli e i loro organi di governo per i problemi specifici che le riguardano. Spero in questo Stato, perché credo sia la nostra unica salvezza possibile, visto che oggi i problemi, politici ed economici, sono europei. Solo uno Stato europeo potrebbe tutelare le identità nazionali, culturali e linguistiche numericamente o economicamente più deboli, che invece sono facilmente in balìa dei gruppi numericamente ed economicamente più forti. Nell’Unione Europea non dovrebbe ad esempio essere possibile che l’una o l’altra delle sue componenti innalzi muri di centinaia di chilometri ai confini con un’altra regione, così come oggi in Italia non è possibile che la Regione Campania innalzi muraglie cinesi alle frontiere con la Regione Lazio. Purtroppo l’Unione Europea sembra fare assai poco in questo senso; un timido passo in avanti e subito mezzo passo indietro, un frequente rinvio dei problemi pressanti per evitare il fallimento della loro soluzione e dunque per rimandare non la soluzione, bensì il suo fallimento. Ad esempio l’atteggiamento dinanzi al gravissimo — sempre più impellente e sempre più difficilmente solubile — problema dell’immigrazione è un tipico esempio di questa inconsistenza dell’Unione Europea, che cerca di scaricare il problema sull’Italia, come se il governo italiano cercasse di scaricarlo sulla Sicilia, visto che i barconi dei disperati arrivano in Sicilia e non a Bologna o a Firenze. Una delle poche istituzioni europee che funzionano con decisione e con una visione globale e organicamente europea è la Banca Centrale, guidata da Mario Draghi. Se l’Unione Europea agisse in quel modo in ogni campo, non ci troveremmo nell’attuale penoso stallo. Forse l’errore è stato quello di allargare l’Unione Europea prima di crearla realmente, rendendola così un pachiderma titubante. Forse sarebbe stato meglio se l’idea d’Europa formulata dai padri fondatori e messa inizialmente in moto dai Sei fosse prima divenuta uno Stato vero e proprio, con una sua struttura e una sua effettività precisa. Questo Stato, una volta costituito, avrebbe potuto e dovuto accogliere successivamente gli altri Paesi che ne condividessero i fondamenti. Non perché l’uno o l’altro Paese sia più o meno degno di altri, ma perché ogni realtà funzionante, in ogni campo, si basa su una costruzione precisa e non su confuse assemblee pulsionali o su patteggiamenti diplomatici. Quando nel 1933 Giulio Einaudi fonda la sua casa editrice, non va in Piazza Castello a invitare tutti i passanti a farne parte, quelli che vorrebbero pubblicare romanzi gialli e quelli che vorrebbero trattati teologici, ma la fonda su un progetto preciso, successivamente aperto a chi lo condivide. Ogni istituzione operante esclude l’unanimità, che paralizza ogni decisione e non è democrazia bensì il suo contrario. Sono le dittature a imporre e a fingere un’unanimità di consensi. Le grandi formazioni statali cui dobbiamo la civiltà europea sono nate da guerre; l’Impero romano è una lontana fondamentale premessa di un’Europa unita, ma è nato senza che le legioni romane chiedessero il permesso di entrare in Gallia o in altre terre. Ovviamente noi vogliamo l’unità europea, ma non vogliamo a nessun costo costruirla con la guerra. Talora questo sogno e questo dovere, questa speranza in una reale unione europea, sembrano la quadratura del circolo. È una ragione in più per lavorare per essa. La tentazione di una triste e rassegnata impotenza è forte. Forse mai come oggi la delusione e la stanchezza della politica sono state così vaste e deprimenti e sembrano riecheggiare quella settima lettera di Platone amaramente deluso dal potere politico, pubblicata non a caso di recente da Paolo Butti de Lima nella versione di una grande traduttrice dei classici, Maria Grazia Ciani (Marsilio). Non resta che sperare contra spem , contro il dilagante e giustificato pessimismo. La speranza, scrive Péguy, è la più grande delle virtù, proprio perché è così difficile vedere come vanno le cose e, ciononostante, sperare che domani possano andare meglio.