di Maurizio Ferrara
Di «nuovo ordine economico internazionale» si parla da quasi mezzo secolo. Nel 1974 l’Onu approvò una Dichiarazione in cui s’impegnava a trasformare la governance dell’economia globale per far sì che i benefici del commercio e dell’integrazione internazionale fossero più equamente distribuiti fra le nazioni. Il processo di decolonizzazione si era completato, il mondo era suddiviso in Stati sovrani con pari diritti (incluso il diritto allo sviluppo). Il primo blocco petrolifero dell’Opec stava cambiando i termini di scambio fra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, dimostrando ai secondi che alleanze e organizzazione potevano trasformarsi in una formidabile risorsa di potere. Il crollo del regime di Bretton Woods segnava la fine della lunga egemonia economica degli Stati Uniti e del loro ruolo stabilizzatore. Le valute occidentali si trovarono sulle montagne russe: l’Italia dovette a un certo punto chiudere il mercato dei cambi per eccesso di svalutazione.
Dagli anni Ottanta in avanti è iniziata una lunga «traversata del deserto» per riorganizzare l’economia mondiale in base a due priorità: (ri)creare un contesto fondato sul libero scambio a livello globale; incentivare modelli nazionali di crescita il più possibile vigorosi, sostenibili e inclusivi. Grazie a una rete sempre più fitta e robusta di organizzazioni regolative multilaterali, il doux commerce già lodato da Montesquieu ha promosso una significativa crescita di benessere fra i Paesi industrializzati, mentre i Paesi in via di sviluppo hanno registrato massicce riduzioni della povertà assoluta.
Il fallimento della Lehman Brothers nell’autunno del 2008 ha segnato la fine della globalizzazione «dolce» e (relativamente) ordinata. Ha anche disvelato le molte crepe delle sue fondamenta, soprattutto sul piano finanziario. Dietro le quinte della regolazione multilaterale avevano infatti potuto operare poteri occulti, mossi da intenti speculativi quando non esplicitamente fraudolenti. Nel 2009 è così iniziata una depressione di proporzioni inedite, che ha messo sotto fortissima pressione tutte le istituzioni economiche internazionali e, naturalmente, i governi nazionali. Il peggio è ora passato, l’economia ha ripreso a crescere. In linea di principio, nulla impedirebbe di tornare all’ old normal , ossia al vecchio ordine multilaterale fatto di regole comuni (pensiamo al Wto) e rafforzato da nuovi accordi commerciali transatlantici, come il Ceta (Ue-Canada) e il Tipp (Ue-Stati Uniti). Di fatto, però, questa strada sembra sbarrata, o quanto meno sempre più difficile da percorrere. Il mondo sta uscendo da una delle crisi economiche più gravi della storia in condizioni di estremo disordine.
La ragione è eminentemente politica. Regole e istituzioni funzionano se poggiano sul consenso di chi deve rispettarle. Ciò è particolarmente vero all’interno del sistema internazionale, che è ancora fondamentalmente «anarchico», privo di un centro di autorità che possa obbligare governi o altri attori sociali (dalle imprese multinazionali alle organizzazioni criminali o terroristiche) a rispettare le regole, appunto. Ma il mondo post-crisi ha un problema in più. In seno alle opinioni pubbliche dei principali Paesi sviluppati si sono formate ampie sacche di elettori antiglobalisti. In parte, si tratta di gruppi sociali oggettivamente penalizzati dalla crisi e più in generale dalle trasformazioni del mercato del lavoro legate all’apertura economica. In altra parte, si tratta di persone impaurite da cambiamenti e rischi che minacciano la loro identità e sicurezza (in particolare i grandi flussi migratori). Rischi che vengono amplificati e cavalcati da nuove formazioni politiche che propongono di tornare al passato, a condizioni di sovranità nazionale protetta da robusti confini.
La Brexit e l’elezione di Trump sono le manifestazioni più emblematiche di questi nuovi umori. La prima ha inaugurato un movimento impensabile solo un decennio fa: la contrazione del processo di integrazione europea, dopo sessant’anni di continua espansione. La vittoria di Trump ha a sua volta aperto il vaso di Pandora delle pulsioni isolazioniste americane, che hanno sempre pervaso la cultura degli Usa, ma erano state finora contenute dal ceto politico di entrambi i partiti. La vittoria di Macron in Francia è stata salutata come un giro di boa, non solo per l’ Europa. Ma è presto per cantare vittoria.
Politica ed economia sono legate a doppio filo. Nella prima si agita tuttavia una gamma di interessi e passioni più ampia che nella seconda. Sbaglia chi pensa che un po’ di crescita basti per recuperare in tempi rapidi il consenso verso la globalizzazione. Le spinte populiste, scioviniste, sovraniste e campaniliste non spariranno presto. Certo, alcune trasformazioni degli ultimi decenni sono irreversibili: non si torna indietro da Internet, ad esempio. Nessun tipo di confine territoriale può riportare l’orologio della storia al vecchio sistema westfaliano, fatto di Stati chiusi e pienamente sovrani sul piano economico, culturale, religioso. Ma in fondo la sfida, meglio la minaccia, sta proprio qui. Non possiamo tornare indietro, non riusciamo ad andare avanti. Rischiamo di precipitare in una globalizzazione politicamente ingovernata, disordinata, conflittuale, pericolosa.
La storia europea è punteggiata di momenti di espansione politica (l’impero romano, quello carolingio, quello napoleonico, per non parlare degli imperi coloniali) seguiti da momenti di contrazione. Oggi c’è chi parla di una ri-medievalizzazione, soprattutto in Europa (fra gli scienziati politici, Jan Zielonka). Con questo termine si fa riferimento alla apparente emergenza di una forma di organizzazione politica basata su sovranità multiple, in parte sovrapposte, in parte condivise, in parte in reciproca concorrenza. Sovranità «acefale», senza comando supremo: un sistema basato su scatole cinesi di sovrani (dalle comunità locali ai governi nazionali alla Ue e via salendo), ciascuno con la sua quota di risorse. I neo-medievalisti guardano con un certo favore a questi sviluppi e confidano che dal pluralismo di centri, poteri e sovranità possa nascere (almeno in Europa) un nuovo tipo di ordine flessibile, post-coercitivo.
Spetta naturalmente agli storici valutare la plausibilità del paragone con il Medioevo. Dal punto di vista politologico, il sistema di dominio feudale non fu certo un campione nella produzione di beni collettivi. Nel suo magistrale volumetto su La vicenda dello Stato moderno (il Mulino), Gianfranco Poggi ha messo bene in luce come la «precipitazione del baricentro potestativo» verso il basso (il castello del vassallo e il contado circostante) che caratterizzò il feudalesimo condusse a uno spaventoso ristagno economico e sociale. Da cui fu possibile uscire solo con la nascita delle città, grazie al loro interesse ad ampliare nuovamente la scala delle transazioni commerciali e dell’organizzazione politica (pensiamo alla Lega anseatica).
Forse è da quest’ultimo spunto che possiamo partire per immaginare uno scenario capace di riportare ordine. Fra i risultati della globalizzazione c’è la formazione di una società transnazionale: un tessuto planetario di contatti e rapporti reso possibile dai nuovi mezzi di comunicazione. Certo, in questo tessuto si nascondono mafie, terroristi, speculatori e faccendieri senza scrupoli. Ma ci sono anche movimenti, organizzazioni, associazioni, imprese e «territori» che condividono interessi e valori cosmopoliti. Con tutti i suoi limiti, la fase della globalizzazione «dolce» (1990-2007, grosso modo) ha costruito un mondo interconnesso, ancora diviso e frammentato, ma legato da interdipendenze «orizzontali» difficilmente reversibili, da attori sociali ed economici in grado di comunicare nella stessa lingua (la koiné globish : il global English). Per insistere con il paragone post-feudale: pensiamo alle grandi metropoli come Parigi, New York, Los Angeles, Tokyo, Milano. Come possiamo pensare che attori così importanti si arrendano al ripiegamento sovranista? È possibile che Londra debba farlo, sulla scia della Brexit, almeno in parte. Ma proprio questo scenario non rappresenterà un monito per l’intera società transnazionale che dal sovranismo ha tutto da perdere?
La storia non si ripete e non è certo detto che dai settori e territori più inseriti nei network globali arrivi la controspinta adeguata per contrastare il ripiegamento sovranista e ricostruire (o inventare) un ordine internazionale basato sull’apertura. C’è peraltro chi già intravede nuvoloni all’orizzonte: un’altra grave crisi dovuta all’esaurimento delle risorse finora utilizzate (come il quantitative easing ), alle riforme non realizzate, a molte regole non cambiate e così via. Teniamo presente che la grande depressione dello scorso decennio ha fornito nuovi spazi alla Cina, ormai una quasi-superpotenza con idee e progetti sui generis rispetto all’ordine economico mondiale, i quali non prevedono diritti civili, politici, sociali e forse neppure umani.
In questo quadro sarà sicuramente determinante ciò che riuscirà a fare l’Europa. Per rivitalizzare il modello della globalizzazione dolce, governata, democratica e inclusiva. Ma, prima ancora, per rivitalizzare se stessa. Il nostro continente ha dato il via a un ambiziosissimo processo di integrazione sovranazionale, che molti vedono come un primo passo verso un sistema di governo multi-livello su scala un giorno planetaria. Ancora una volta, le chiavi della storia sono oggi in mano all’Europa. E se proprio vogliamo interrogare il nostro passato per individuare la direzione di marcia, ci conviene forse sorvolare sul feudalesimo e guardare, piuttosto, al Rinascimento. Perché è di equilibrio, ragione, misura (e anche di un po’ di «astuzia» politica) che oggi abbiamo disperatamente bisogno.
- Domenica 23 Luglio, 2017
- LA LETTURA