Quel filo rosso con Martini
Chiara Dino
È una storia che parte da Firenze e torna a Firenze, una storia di connessioni quasi magica quella che s’interseca al Museo Novecento dove oggi s’inaugura la mostra di Arturo Martini: 14 opere scultoree — un’altra, La donna che nuota sott’acqua in marmo di Carrara arriverà a settembre da Cariverona — che, fino al 14 novembre, si snodano al secondo piano di quel gioiello poco noto ai fiorentini che è il Museo di piazza Santa Maria Novella, ricettacolo di storie di collezionisti e specchio di un XX secolo fiorentino di cui poco si dice malgrado sia gravido di storie, stimoli culturali, personaggi.
Tra questi c’era anche Arturo Martini di cui la galleria fiorentina possiede 7 opere tra cui la celebre e bella Pisana (1929) ovviamente in mostra, anzi lì ad aprirla. E poi le sue attese, le sue donne sdraiate, i due volti femminili quello de La cinese e la Testa di ragazza ebrea , le bellissime Moglie del Marinaio e L’Ospitalità e ancora l’Ulisse , unico bronzo in mostra, per finire con la scultura della shakespeariana Ofelia la cui storia tanto ancora ci affascina.
Firenze, si diceva, un po’ alpha e omega di questa mostra: «filo conduttore — per usare le parole di Lucia Mannini curatrice affiancata da Eva Francioli e Stefania Rispoli — di un percorso espositivo che vuole raccontare il legame che l’artista trevigiano ebbe con la nostra città da lui amatissima». Arrivò per restarci alcuni mesi che era il 1931 quando, chiamato dall’amico poeta Roberto Papi, soggiornò alcuni mesi nella sua dimora, quella Villa Fasola a Santa Margherita a Montici da cui Martini avrebbe ammirato una città «dove — diceva lui stesso — anche la pioggia sembra cadere in modo delicato». «È qui a Firenze — aggiunge Mannini — che viene a sapere di aver vinto il premio della Prima Quadriennale di Roma: 100 mila lire, una cifra per l’epoca tanto cospicua da fargli pensare di investire questi soldi acquistando un podere nei dintorni di Firenze». Dell’affare non se ne farà nulla, ma il suo legame con la città non sarà per questo meno stretto. Nel ‘32 Luigi Bellini organizzerà una sua mostra a Palazzo Spini Feroni di cui le cronache dell’epoca parlano come di un successo senza precedenti. Poi, dopo l’alluvione, ecco arrivare in città quelle sette opere donate da collezionisti corsi in soccorso della Firenze alluvionata a seguito dell’appello di Carlo Ludovico Ragghianti. Non solo: i collezionisti che si appassionano negli anni — anche prima del ’66 — all’opera dell’artista trevigiano sono tanti. Primo fra tutti Mario Castelnuovo Tedesco: è sua l’Ofelia che chiude la mostra, acquistata dal compositore fiorentino dopo aver messo in musica il canto del personaggio shakespeariano, poi nascosta quando fu costretto a scappare in America dalle leggi razziali, dunque riesposta nella dimora che nel ‘61 avrebbe ricomprato a Firenze, proprio nell’anno in cui il Maggio Fiorentino portava in scena un suo lavoro. Adesso la scultura arriva da un prestito degli eredi del maestro. Ma di opere di collezionisti di casa nostra ce ne sono altre in mostra: dei Contini Bonaccossi erano La moglie del Marinaio e L’Ospitalità , mentre un suo dono a Felice Carena — nei suoi anni fiorentini — è l’Ulisse in bronzo. Una storia di connessioni e di amore, per Firenze.
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