La vertigine arriva piacevolmente implacabile già all’ingresso della navata centrale del Duomo di Siena, capolavoro del romanico-gotico italiano realizzato tra il 1220 e il 1370. E ancora una volta è una vertigine particolare che, come accade sempre nei giorni del Palio, combina alla perfezione sacro e profano, l’insegnamento cristiano di una «Rivelazione tramite la Scrittura» e i ben più prosaici riti del «dopo corsa», quando il fantino della contrada vittoriosa viene issato trionfante (seminudo o quasi) sull’altare maggiore della stessa Cattedrale per cantare il Te Deum di ringraziamento alla Maria Assunta. A scatenare una simile «vertigine d’artista», nel cult-movie di Alfred Hitchcock Io ti salverò (1945) erano stati i disegni di Salvador Dalí; stavolta sono le 56 tarsie che compongono il pavimento del Duomo di Siena, tarsie abitualmente coperte e che, ormai con regolarità, vengono ogni anno (ri)svelate tra giugno e ottobre (in realtà dal 27 giugno al 31 luglio e poi di nuovo dal 18 agosto al 28 ottobre). In una sorta di trionfo della monocromia, del bianco e nero (colori non-colori oltretutto simbolo della città) molto vicino a quello già andato in scena fino a pochi mesi fa alla National Gallery di Londra (Monochrome: Painting in Black and White).
Tutta colpa di quelle austere Sibille (dieci in tutto, cinque per navata; il titolo della ri-esposizione del pavimento — In lucem veniet — è una citazione rubata alla Cumea) e delle storie dall’Antico (quasi tutte) e dal Nuovo Testamento (solo una) che costellano «il pavimento più bello…, grande e magnifico… che mai fusse stato fatto», come lo aveva definito il Vasari, realizzato in «commesso marmoreo», cioè con pezzi di marmo antico assemblati, ognuno con una storia e un’origine diversa, lungo un arco di tempo che spazia dal Trecento all’Ottocento. I cartoni preparatori per le cinquantasei tarsie di questo «tappeto marmoreo» furono elaborati da artisti senesi (Sassetta, Domenico di Bartolo, Domenico Beccafumi), tranne uno (l’umbro Pinturicchio). Un capolavoro universale che, nella stampa di fine XIX secolo veniva felicemente definito The Wonder of Siena, la meraviglia di Siena.
Oltrepassata l’iscrizione che invita il visitatore ad assumere un atteggiamento consono a chi sta per entrare nel sacro tempio (Castissimum Virginis templum caste memento ingredi, ovvero: ricordati di entrare castamente nel castissimo tempio della Vergine), oltrepassata la tarsia con l’Ermete Trismegisto fondatore della sapienza umana, il pavimento del Duomo appare ancora oggi come un’opera d’arte talmente globale da fare invidia a Olafur Eliasson e a tutti i performer dell’ultima generazione.
Qui ognuno può scegliere il percorso (o il soggetto) da seguire. Ma è impossibile non soffermarsi davanti alla Strage degli innocenti di Matteo di Giovanni (1428 circa-1495). Un soggetto, oltretutto, particolarmente frequentato di recente: solo nel 2018 sono state due le mostre dedicate a opere che proprio da quella Strage volevano partire per ri-narrare il dolore del mondo: una al castello di Chantilly con lavori di Nicolas Poussin, Picasso e Annette Messager; un’altra al museo Archeologico di Aosta incentrata sulla Strage dipinta nel 1611 da Guido Reni e oggi alla Pinacoteca Nazionale di Bologna.
L’iscrizione nel bordo inferiore della tarsia del Duomo di Siena ricorda che questa, una delle più ammirate dai preraffaelliti, venne realizzata al tempo del rettorato di Alberto Aringhieri, nel 1481. Mentre nelle tre navate il percorso si snoda attraverso temi relativi all’antichità classica e pagana, nel transetto (dove si trova la Strage) e nel coro si narrano invece la storia del popolo ebraico, le vicende «della salvezza compiuta e realizzata dalla figura del Cristo», costantemente evocato e mai rappresentato nel pavimento, ma presente sull’altare, verso cui naturalmente converge l’itinerario artistico e spirituale.
A differenza delle altre tarsie che rimandano a storie e personaggi tratti dall’Antico Testamento, la Strage di Matteo di Giovanni si affida al racconto del Vangelo di Matteo (2,1-18). Un episodio menzionato anche nelle fonti apocrife che racconta la Strage dei santi innocenti, i primi martiri cristiani, come metafora della persecuzione della chiesa. Un tema molto frequentato dallo stesso Matteo di Giovanni che l’avrebbe trattato in una serie di dipinti a Siena (a Sant’Agostino, a Santa Maria dei Servi) e anche fuori (Santa Caterina a Formello a Napoli). Una rappresentazione fortissima e moderna, in particolare nelle sue figure femminili che sembrano letteralmente scaturire, proprio come accade alle ben più austere Sibille, dallo sfondo scurissimo. Un racconto che, però, non sembra guardare solo alla classicità della religione, ma anche all’attualità (la Strage interpretata da Matteo di Giovanni evocherebbe infatti un fatto di cronaca che tanto aveva colpito il popolo senese: nel 1480, mentre il duca Alfonso di Calabria si trovava in visita proprio a Siena, i Turchi, sbarcati a Otranto, avevano fatto strage dei cittadini, decapitati per non avere abiurato la fede cristiana), e che non può non far pensare alle guerre e alle stragi contemporanee.