di Angelo Panebianco
La violenta polemica che ha opposto monsignor Nunzio Galantino, il segretario della Conferenza episcopale italiana, alla classe politica, sia di governo che di opposizione, potrebbe restare negli annali come un fatto eccezionale. Ma potrebbe anche indicare che rapporti molto più conflittuali rispetto al passato andranno a stabilirsi in permanenza fra la Chiesa e i principali leader della democrazia italiana. Se questo fosse il caso e se, per effetto di tali conflitti, alla lunga, una parte significativa del mondo cattolico prendesse le distanze, anche sul piano elettorale (per esempio, optando massicciamente, e permanentemente, per l’astensione) da quella stessa classe politica, allora la nostra fragile democrazia si troverebbe a fronteggiare una sfida assai severa. Al tempo del non expedit , quando dopo l’unificazione italiana, il conflitto fra il nuovo Stato e la Chiesa tenne per tanti decenni i cattolici fuori dallo Stato, le conseguenze politiche di lungo periodo furono gravi. È vero che allora i cattolici praticanti erano la schiacciante maggioranza nel Paese e oggi, nell’Italia secolarizzata, non lo sono più. Ma una nuova forma di alienazione politica, o di ritiro della delega alla politica rappresentativa, da parte di settori rilevanti del mondo cattolico potrebbe avere di nuovo conseguenze gravi.
Ha certamente ragione Mauro Magatti (sul Corriere di ieri) quando osserva che si tratta di trovare, a partire dal riconoscimento che la Chiesa e la politica secolare hanno compiti e vocazioni diversi, un luogo d’incontro.
Un terreno nel quale, come talora è accaduto in passato, la dialettica, e anche le eventuali tensioni, fra religione e politica non abbiano esiti distruttivi ma vadano a beneficio di entrambi.
Nella prospettiva qui prescelta si tratta soprattutto di capire se è possibile che il nuovo impulso dato da papa Francesco all’azione globale della Chiesa, nonché la nuova «agenda» adottata da questo pontificato, possano trovare una soddisfacente articolazione, e un efficace momento di mediazione, in una comunità cattolica nazionale in grado di conciliare il messaggio universalistico con le esigenze del Paese di appartenenza. Né più né meno, peraltro, di ciò che la Chiesa ha sempre fatto, nei suoi momenti più felici, in tantissime, fra loro differenti, realtà nazionali.
Il Papa che viene dall’altra parte del mondo segnala, come è stato detto tante volte, un radicale riallineamento «geopolitico» della Chiesa. Implica la presa d’atto che l’Europa non è più il centro del cristianesimo e che il suo futuro si giocherà soprattutto in America Latina, in Africa, e in certe zone dell’Asia. Papa Francesco è, con il suo carisma e il suo attivismo, l’espressione di questo cambiamento. Proprio per questa ragione, però, è anche inevitabile che un momento di mediazione fra il messaggio papale e le esigenze delle varie comunità nazionali europee si affermi. In Italia specialmente, essendo qui la sede del Papato.
È inevitabile — ciascuno di noi è figlio della propria storia — che questo Papa, come tutti quelli che l’hanno preceduto, si porti dietro, oltre alla sua fede e alla sua lettura del Vangelo, anche esperienze, idee e sentimenti che sono parte della tradizione della sua terra. Tradizione che non coincide necessariamente con la nostra. È plausibile che in un Paese di capitalismo maturo quale è, nonostante tutto, l’Italia, non siano pochi, anche fra i cattolici, quelli che dissentono da Bergoglio in materia di lavoro e di profitto o che, per fare un altro esempio, non credono che le guerre contemporanee siano solo il frutto del desiderio di guadagno di avidi capitalisti. Ed è anche plausibile che molti si rendano conto che le concezioni economiche del Papa derivano da una certa interpretazione delle Scritture ma, forse, derivano anche da una tradizione, fortemente anticapitalista, radicata nel Paese da cui proviene.
In Italia abbiamo ottimi studiosi dell’America Latina in generale e dell’Argentina e della sua storia in particolare. Forse è il caso che comincino a occuparsi dei legami culturali fra questo Papa e quella tradizione.
Tutto ciò per dire che un filtro e una mediazione sono necessari. I cattolici italiani sono, per l’appunto, sia cattolici che italiani. In quanto cattolici, non possono che aderire al messaggio universalistico della loro Chiesa e del loro Papa. In quanto italiani, però, hanno esigenze, sia interessi che valori, che condividono con altri italiani, credenti e non — ad esempio, esigenze relative a questioni come la sostenibilità del sistema di welfare, i livelli di tassazione, eccetera — e che rispondono a una differente logica. E hanno anche un interesse alla stabilità del loro (nostro) sistema democratico.
Come si è potuto apprezzare benissimo in questi giorni, ci sono certamente vescovi italiani consapevoli del problema e, quindi, dell’ indispensabilità di una mediazione.
Questa è un’ottima cosa. Se i cattolici si dividessero fra una parte dialogante e una parte alienata e ostile nei confronti della politica rappresentativa (nelle parole di monsignor Galantino «un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi») e se, inoltre, in certe persone, le due identità di cattolico e di italiano entrassero in conflitto, questo sarebbe, immaginiamo, un grave problema per la Chiesa. Ma lo sarebbe, di sicuro, anche per la democrazia italiana.