di Massimo Cacciari
Come parlare dell’amico che aveva la forza di “rappresentare” in sé tanti mondi? Non solo di studiarli e comprenderli, ma di comunicarcene la vita per immagini capaci di agire su ogni dimensione del nostro essere? I libri di Calasso — quelli da lui scritti la punta emersa di un immenso iceberg. I libri di Calasso sono tutti quelli da lui pubblicati. Antichi, medievali, moderni erano suoi autori, anelli delle collane che lui costruiva. E collane dovevano anche formarsi tra le diverse discipline. Rapporti analogici, che si rivelano soltanto a una lettura attenta, alla massima cura per il testo, dovevano collegare letteratura e saggistica, filosofia e scienza. Eppure l’unità del tutto traspare evidente. E stava nell’occhio e nella mente di Roberto.
Quante volte in tanti anni mi è capitato di proporgli invano autori che sapevo essergli ben noti e da lui stimati, da Maria Zambrano a Fondane a Däubler; importanti, sì, ma non li sentiva suonare con la sua idea di questa o quell’altra collana, col ritmo cui dovevano insieme obbedire tutti i suoi titoli. Sono i grandissimi editori a lavorare così. Ma anche i grandi lettori e i grandi autori. Memorie potenti quanto selettive, erudite quanto anti-accademiche.
Ciò che ha pubblicato — tutti i suoi libri — raccoglie una luce che viene anche dalle cose più lontane nello spazio e nel tempo e le fa presenti. Soltanto se suonano presenti informano, illuminano e ci dirigono per quanto è possibile nella tenebra che rimane il futuro. Che sia il mythos greco, l’India, Mesopotamia, Israele.
Così Calasso ci ha reso viventi le epoche, le civiltà, con la grazia di chi conosce bene anche la distanza che ci separa da esse e sa che la più grande “simpatia” non la annulla. Così ha rivisitato e riletto le grandi tradizioni e scuole sapienziali senza “tradizionalismi” o la pretesa di scoprirne la Radice o la Fonte — ma pure pubblicando Guénon e sottolineandone l’importanza.
Il suo rapporto col passato mi è sempre sembrato simile a quello di Hölderlin, edito nella traduzione di Mandruzzato tra i primi “Classici”, con la madre-Ellade.
È l’eroico furore di Bruno, una delle ultime grandi opere voluta da Roberto e affidata alle cure di Ciliberto. E il classico? Deve essere quello di Colli, della Sapienza greca, con e contra Nietzsche.
E il contemporaneo? Heidegger, sì, ma quello di Volpi, l’Heidegger “salvato” dagli esoterismi e dai linguaggi gergali degli epigoni, l’Heidegger dell’Aristotele riletto alla luce della fenomenologia e di quei “grandi viennesi del linguaggio” che Calasso con Foa, eredi di Bazlen, fece leggere, studiare e amare a tutti noi a partire dalla fondazione di Adelphi. L’Heidegger pubblicato in traduzioni esemplari e collocato in contro-canto con il maestro che ritengo il suo indispensabile avversario, Severino.
E la scienza, anche, certo, non poteva non trovare un luogo centrale nelle sue collane. Una scienza co-sciente delle sue più intime affinità con filosofia e metafisica, una scienza che è sempre anche ricerca sul proprio significato, eironeia nel senso etimologico del termine.
Ed ecco allora la straordinaria collana curata da Tratteur.
Come poter essere all’altezza di un simile lascito? Come anche soltanto rimanere alla sua scuola? Come resistere a “inanellare” lettura a lettura, libro a libro, contro l’incalzare febbricitante delle mode e delle “novità”?
Come pubblicare soltanto ciò che nel contemporaneo avanza almeno la pretesa di restare e tra i classici vive come un contemporaneo? L’opera di Calasso, Adelphi, è una vera monade: una sostanza che riflette volti infiniti e all’infinito emette la sua luce. Una Biblioteca universale, come universale, proprio nelle sue drastiche decisioni, nelle sue scelte inappellabili, era Roberto Calasso.