Storia del lavoro in Italia. Il Medioevo edito da Castelvecchi è un’opera amplissima nella mole e capillare negli accertamenti che coincide con una fase vitale della storiografia sul Medioevo. Il curatore Franco Franceschi fa notare giustamente che la tripartizione sociale teorizzata intorno al 1000 ( oratores , bellatores e laboratores ) non ha generato, nella seconda metà del Novecento, un’attenzione degli storici ben distribuita fra le tre categorie: alla prevalenza degli studi sui religiosi e sui combattenti, solo da qualche decennio si sono aggiunte ricerche aggiornate sul mondo del lavoro, rurale e cittadino. I 16 autori sono i principali protagonisti del nuovo interesse, specialisti di vaglia che sono stati messi nella condizione — al momento giusto — di comunicare novità rilevanti. Il risultato è una storia del lavoro che si sviluppa spontaneamente in una storia della società medievale di notevole completezza e novità.
L’impressionante abbondanza di esempi su cui scorre l’occhio del lettore ha tre funzioni: 1) sottrae all’astrazione e mette in contatto diretto con fonti scritte, iconografiche e archeologiche; 2) abbatte le definizioni bloccate e omogenee del passato, illustrando significative differenze territoriali (con un’apertura all’Europa che non isola l’Italia); 3) aiuta a combattere i luoghi comuni senza per altro proporre nuovi controstereotipi. Ci deve essere stata una produttiva convergenza fra le indicazioni del curatore e gli intenti espositivi degli autori. In particolare per un aspetto: si è deciso di non organizzare i contenuti in modo controversistico. Dei più tenaci stereotipi sul Medioevo si fa giustizia con il silenzio: un silenzio sulle consolidate definizioni scolastiche a cui si sostituiscono pagine equilibrate e articolate. Di «modo di produzione feudale» non si fa proprio parola, perché di un concetto superato si può tacere.
Altri esempi sono più sfumati, ma l’atteggiamento è simile. Francesco Panero non cavalca la vecchia idea dei «servi della gleba», ma si sottrae alla contrapposizione fra chi li poneva al centro della visione di quei secoli (le semplificate letture del marxismo e del liberalismo) e chi per contrasto ne ha negato drasticamente l’esistenza. Illustra la differenza fra i servi medievali e gli schiavi antichi (gli «strumenti privi di voce» del mondo romano). Constata la netta prevalenza di manodopera servile nella parte a gestione diretta della curtis , ma insiste sull’obbligo contrattuale di residenza dei contadini personalmente liberi che possono essere trasferiti (in quanto adscripticii ) da un possessore all’altro insieme con la terra. È contro questi vincoli, che risultano limitativi della libertà individuale, che intervengono con norme apposite Comuni come Vercelli e Bologna, in parte per frenare un eccessivo inurbamento, in parte per indebolire l’egemonia dei signori rurali.
Anna Maria Rapetti corregge, sì, e ricorda la sorprendente (per i più) assenza dell’abusata formula ora et labora nella Regola di san Benedetto. Ma non cancella la funzione del lavoro nell’ispirazione di fondo del movimento monastico. Sottolinea che non è una forma di elevamento dello spirito, e che non bisogna pensare che i monaci lavorassero i campi: era una sorta di igiene mentale per interrompere la preghiera, serviva a garantire autosufficienza rispetto a influenze esterne, funzionava da esortazione all’umiltà (poco praticata soprattutto dai Cluniacensi). Non bisogna dimenticare che era considerato lavoro manuale ( opus manuum ) anche lo scrivere, e che le vere attività agricole presso Cistercensi e Certosini erano riservate ai conversi.
Non si perde tempo a polemizzare contro l’idea, superatissima, dell’«economia chiusa» e degli scambi limitati al baratto, ma si illustra in dettaglio la formazione di competenze artigiane soprattutto nelle città e, nel mondo rurale, lo sviluppo di attività delle famiglie contadine impegnate a riempire i tempi vuoti dei cicli colturali (Paolo Nanni, Vasco La Salvia, Gabriella Piccinni, Andrea Barlucchi, Sergio Tognetti e, per i «mestieri del mare», Amedeo Feniello). Le corvée compaiono in più contesti, e forse non è sempre chiara la distinzione fra lavoro come forma di pagamento parziale degli affitti e prestazioni obbligatorie dei sudditi dei signori. A proposito di arti e corporazioni si menziona il dibattito circa continuità-discontinuità rispetto a tradizioni romane (conservate soprattutto in ambito bizantino), ma lo si ritiene o poco risolvibile o poco importante (Claudio Azzara).
All’inadeguata e generalizzata attitudine a distinguere arti maggiori e arti minori si sostituiscono accertamenti empirici, caso per caso, che tengono conto dei livelli di ricchezza, dei fattori di prestigio sociale, della capacità dei priori delle arti a costituirsi — in qualche caso — come organi di governo dei comuni (Franceschi, Roberto Greci). Tra le professioni «liberali» risulta evidente la distinzione (proprio nel senso di Pierre Bourdieu) fra chi lavora di intelletto e chi esercita attività pratiche: più in alto nella scala sociale giuristi e medici, più in basso notai e chirurghi.
Maria Paola Zanoboni cancella pigri luoghi comuni sul lavoro femminile, che non era solo integrativo né solo svolto fra le pareti domestiche: troviamo donne protagoniste d’impresa, in grado di investire le loro doti o il ricavato della vendita dei loro gioielli; e troviamo monache che danno sbocco sul mercato alle loro comunità con attività di tessitura, erboristeria e piccola manifattura.
Ma non tutto è decostruzione e ricostruzione, si «impara» in ogni pagina anche quando non è necessario operare rovesciamenti. Il «sistema di valori» del mondo medievale in fatto di lavoro emerge da una cultura che ha le sue permanenze e le sue flessibilità (Donata Degrassi), si manifesta nelle rappresentazioni letterarie e iconografiche (Paolo Cammarosano), si cristallizza nelle leggi suntuarie che intervengono su consumi e abbigliamento (Maria Giuseppina Muzzarelli). Il «lavoro contrattato» del sottotitolo non è solo un punto d’arrivo che consegna all’età moderna nuovi rapporti lavorativi: elementi di contrattazione erano presenti da tempo, ma certo si svilupparono la mezzadria e il lavoro salariato, fra inversioni di rotta e contrasti (di conflitti e rivolte scrive Valentina Costantini). Il lavoro salariato non è più cercato, come faceva il pur grande Bronisław Geremek, soltanto nei rapporti permanenti, ma anche negli impegni finalizzati e circoscritti. O addirittura negli affidamenti di compiti a grandi salariati che si munivano a loro volta di dipendenti precari: la strada verso gli appalti era aperta.
- Domenica 17 Settembre, 2017
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