Il diffondersi del timore «che l’euro non sia irreversibile». È questo che dal precipitare della crisi greca teme il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, più che gli effetti sui nostri conti pubblici. «Non irreversibile». È un termine che evoca scenari inquietanti, ben oltre le implicazioni dell’eventuale uscita della Grecia dalla moneta unica. Perché se l’euro fosse davvero «non irreversibile», potrebbe mai esserlo la stessa Unione Europea?
Per quanto si stenti ancora a prenderne coscienza, c’è questo in ballo nella partita fra Atene, Francoforte e gli altri Paesi dell’eurozona. E la sensazione che si stia giocando con il fuoco sulla pelle dell’Europa è sempre più netta. L’ escalation dei toni con cui Alexis Tsipras prefigura per domenica una scelta senza ritorno, dopo aver rivendicato nei giorni scorsi addirittura il pagamento dei danni della Seconda guerra mondiale, e di rimando il gelo di Berlino spargono un odore sinistro. Lo stesso odore che aveva ammorbato il Continente per secoli e secoli, ed è per non sentirlo più che i padri fondatori avevano fatto nascere la Comunità europea. Decretando che le ragioni per stare insieme in pace sono immensamente più numerose e importanti di quelle che avevano insanguinato fino ad allora l’Europa. Ragioni ora smarrite nell’insorgere degli egoismi nazionali: come quelli di certi Paesi ex comunisti inondati di contributi europei che però sbattono la porta in faccia a un migliaio di rifugiati. Oppure soffocate da regole che rendono l’Europa una camicia di forza insopportabile. O di più, schiacciate da un rigore dei conti pubblici sacrosanto, ma la cui applicazione pratica non prevede il buonsenso. Con il risultato che basterebbe una scintilla per mandare in fumo tutto. Tsipras ci pensa?
L’abisso che sembra adesso dividere dall’Europa anche i più europeisti ha certo molti colpevoli. Il principale però è l’ignoranza. Dalla nascita della Cee sono trascorsi 58 anni, e ben 23 da quando c’è l’Unione. Esiste anche una bandiera: per legge campeggia sulla facciata degli edifici pubblici. Ma quanti cittadini europei sanno che cosa davvero rappresenta?
Prendiamo l’Italia. Non c’è una legge che imponga nelle scuole l’insegnamento della storia e delle istituzioni dell’Unione. Solo due mesi fa il dipartimento delle politiche europee ha firmato con il ministero dell’Istruzione, il Parlamento di Strasburgo e la commissione Ue un «accordo di programma» per istituire «un partenariato strategico allo scopo di garantire nelle scuole italiane l’Educazione civica europea». Bene. Ma l’orizzonte per colmare finalmente la lacuna non è vicino: il governo «spera» nel 2020. D’altra parte, dice Palazzo Chigi, «molti docenti sono digiuni di nozioni basilari sull’Ue e quindi non riescono a inserire unità didattiche ad essa relative nelle loro programmazioni».
Dovremo dunque attendere cinque anni perché i nostri figli (o forse i loro) imparino che cosa sono il Parlamento e la Commissione europea? Ma soprattutto perché è nata l’Unione (mai più guerre in casa nostra!) e qual è la nostra storia? Cinque anni, e il mondo cambia in 5 giorni. Ci fosse stata la volontà di farlo, si sarebbe introdotto da tempo l’insegnamento di Istituzioni e Storia d’Europa. Magari con una delle tante riforme della scuola: utilizzate invece per demolire i programmi e risolvere i problemi dei professori anziché quelli degli studenti.
Sergio Rizzo