di Massimo Franco
La decisione del Tribunale di Napoli che ha congelato la sospensione di Vincenzo De Luca dalla carica di presidente della giunta della Campania, dovrebbe essere una buona notizia: nel senso che la regione ora potrà avere un governo. Limitarsi a questa constatazione, tuttavia, non basta. Per il modo in cui si è snodata e per i contraccolpi che può ancora produrre, la vicenda ha i contorni di un pasticcio giuridico e politico. Chiama in causa le ambiguità della legge Severino, secondo la quale De Luca non può fare il governatore in quanto condannato in primo grado.
Lascia affiorare un contrasto tra Palazzo Chigi, che aveva sospeso il governatore, e la magistratura. Ma soprattutto ripropone le polemiche sul diverso trattamento al quale sarebbe stato sottoposto Silvio Berlusconi; e, più in generale, sul «doppio standard» morale che il Pd usa quando ad essere implicati nelle inchieste sono suoi esponenti. Colpiscono, inoltre, le motivazioni con le quali il tribunale ha bloccato la sospensione, rinviando tutto al 17 luglio. Si parla infatti di «abnorme revoca delle elezioni», «vanificando la volontà popolare» con «conseguenze eversive di una democrazia rappresentativa».
Implicitamente sembra delinearsi il primato del voto su una legge: argomento evocato a lungo, e inutilmente, dal centrodestra per il suo leader. De Luca, che ieri ha partecipato a Roma alla riunione dei governatori del Pd,l’ha detto: «Si ripristina il rispetto della volontà popolare». C’è chi chiede le dimissioni di Rosy Bindi dal vertice dell’Antimafia, perché aveva definito De Luca «impresentabile». Eppure la vicenda non è chiusa. Rimane il rischio che la giunta si insedi e poi arrivi un’altra decisione della magistratura, in contrasto con quella di ieri. Per questo il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, del M5S, avverte che «è inutile gridare vittoria su De Luca».
Ma si profila un’offensiva per cambiare la Severino: di fatto per svuotarla. L’obiettivo è evidente: estendere a Berlusconi la logica seguita nel caso De Luca. Forza Italia abbraccia le motivazioni del tribunale per dire che «la legge deve valere per tutti»; anche per il suo leader «estromesso dal Senato inopinatamente. Non è possibile che la volontà popolare venga rispettata a seconda delle persone elette». Per il capo di FI, in realtà, esisteva una sentenza definitiva.
Politicamente, però, la questione è scivolosa. E può prendere una china discutibile perché, invece di assicurare la certezza del diritto, tende a subordinarlo al primato del voto. Apre la strada alla possibilità che chiunque sia stato condannato possa candidarsi e sperare che una vittoria annulli una sentenza sfavorevole. L’ipotesi di affidare al governo una delega per modificare le norme, conferma l’incertezza nell’applicazione della legge; e gli esiti abnormi e laceranti che può avere .