Le due anime di Anne Frank .

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di Pietro Citati

Quando venne pubblicato, poco dopo la fine dell’ultima guerra, il Diario di Anne Frank riscosse un successo e un’eco immensi. In mezzo all’orrore del delitto antisemita, Anne Frank conservava l’innocenza e la grazia dell’adolescenza: una voce leggera e ironica, che illuminava la vita quotidiana. Ma non aveva scritto soltanto i Diari : racconti, prose, pensieri, che ora sono stati raccolti in un eccellente volume complessivo, Tutti gli scritti , a cura dell’Anne Frank Fonds di Basilea (Einaudi). Senza alcun dubbio, i Diari restano l’opera più bella: per portare alla luce le sue qualità ancora infantili, Anne Frank aveva bisogno di porre al centro dell’attenzione se stessa, la famiglia, il suo rapporto con il mondo, la sua difficoltà di crescere e di maturare.
Nemmeno una parola di Anne Frank sarebbe stata scritta senza un’invenzione del padre, Otto Frank, un ricco uomo d’affari ebreo, che giunse in Olanda dalla Germania. La sede della sua ditta stava ad Amsterdam, in un palazzo elegante di Prinsengracht 263: lì, in un piccolo spazio di 50 metri quadri, predispose un nascondiglio dove la famiglia trascorse, invisibile o quasi invisibile, più di due anni durante la guerra. «Vedo noi otto nell’Alloggio segreto — scrive Anne — come se fossimo un pezzetto di cielo azzurro, circondato da nubi nere di pioggia. L’isoletta protetta su cui ci troviamo è ancora sicura, ma le nuvole si avvicinano sempre di più, e il cerchio che ci separa dal pericolo incombente si fa sempre più stretto. Ora siamo talmente circondati dai pericoli e dall’oscurità, che per la disperazione di metterci in salvo ci scontriamo tra di noi». Per mantenere sempre l’Alloggio segreto, i Frank e i loro amici obbedivano a un codice meticolosissimo di avvertenze: bisognava celare l’entrata dietro uno scaffale di libri, non dare segni di vita, mantenere un silenzio quasi totale; e insieme far sì che quell’impossibile vita da Robinson si trasformasse nel simbolo della vita quotidiana.
Il Diario prese inizio il 12 giugno 1942, quando, per il suo tredicesimo compleanno, Anne ricevette in dono un quaderno. Gli diede un nome: lo chiamò Kitty, come il personaggio di una notissima serie narrativa; e subito lo fece diventare il doppio di sé stessa, l’unico essere al mondo che potesse darle conforto e sostegno. «Ho voglia di scrivere e, soprattutto, di sfogarmi una volta tanto su diverse questioni. Voglio che il diario diventi la mia amica, l’amica che si chiama Kitty». Lo inaugurò tre volte: il 12, il 14, il 20 giugno 1942, costruendosi un presente, un futuro, un passato. «Chi a parte me — diceva — rileggerà un domani tutte queste lettere? Chi mi consolerà se non lo farò da sola?» Spesso aveva bisogno di essere consolata: non era abbastanza forte; e le volte che sbagliava erano più numerose di quelle in cui le riusciva di comportarsi come voleva.
Scrisse un’ode alla sua penna stilografica, che era per lei un oggetto prezioso: ne amava specialmente il grosso pennino. E via via che scriveva, la sua fiducia nel Diario cresceva: «Sono sicura che sempre, in tutte le circostanze, tu saprai tacere». Sentiva di possedere le qualità fondamentali di uno scrittore: la scioltezza e la naturalezza; e che un giorno, entrata nel mare pieno della giovinezza, sarebbe diventata un vero scrittore, autrice di romanzi e di storie e di scritti giornalistici. «Devo avere qualcosa, oltre a un marito e a dei figli a cui dedicarmi! Non voglio far la fine di gran parte della gente che non ha vissuto per uno scopo. Voglio essere utile o procurare gioia alle persone che vivono attorno a me, ma egualmente non mi conoscono, voglio continuare a vivere anche dopo la morte».
Anne Frank stava nel cuore del suo Diario : nel centro dei rumori; e registrò e raccolse tutti i suoni e bisbigli che le risuonavano intorno, lontani o vicini. Raccontava delle truppe naziste che trascinavano via gli ebrei e li rinchiudevano nei campi di concentramento: delle incursioni aeree che devastavano la sua bella Amsterdam; gli aerei si gettavano in picchiata, risalivano e sibilavano. Ogni minuto pensava: «Ecco, ci siamo, cade». E andava rimuginando che cosa sarebbe accaduto alla fine della guerra, quando, dopo lo sbarco e la conquista della Normandia, i nazisti sarebbero stati sconfitti, come era sicura. «Non riesco a immaginare che il mondo intero potrà mai tornare normale per noi… Quando ci sarà concesso di tornare a respirare aria fresca?… Andare in bicicletta, ballare, fischiettare, osservare il mondo, sentirsi giovani, sapere di essere libera, ecco che cosa vorrei. Ogni giorno sento la mancanza di una madre che mi capisca. Per questo, penso che domani vorrei essere per i miei figli la madre che sogno».
Poi pensava alla sua famiglia. In primo luogo, naturalmente, a se stessa che era il centro del mondo creato e abitato. Disegnava di continuo autoritratti. «Mi sono guardata allo specchio, e sono molto cambiata. Ho gli occhi così chiari e profondi, e le guance sono rosate: come non mi accadeva da tempo ho la bocca molto più morbida, e sembro felice, anche se nel mio aspetto c’è qualcosa di tremendamente triste, il sorriso che mi si cancella subito dalle labbra». Dire Anne Frank voleva dire pochissimo: perché sapeva di essere una contraddizione vivente. Per un verso era vivace e lieta: un «argento vivo», come si diceva: sentiva di vivere ogni momento, esaltava tutto quello che si muoveva, cambiava e si agitava: era sempre impaziente; se arrivava un amico, non poteva trattenersi, si precipitava giù per le scale ad incontrarlo. «Avverto il forte desiderio di divertirmi come una volta, e di ridere sino a farmi venire il mal di pancia». Fin dalla scuola, era stata una «chiacchierona». Era insolente, allegra e brillante quanto più poteva, per evitare tutte le domande e non adirarsi contro se stessa. «Sono e sarò felice», ripeteva. Lo era per natura, le piaceva la gente, non era sospettosa e voleva che tutti stessero insieme allegri e sfrenati come lei.

Ma ecco che l’Anne che tutti conoscevano e fissavano con l’etichetta dell’«argento vivo», fuggiva; e appariva un’altra Anne, buona, mite e dolcissima. Questa Anne si guardava continuamente come un’estranea: si nascondeva, cercava di essere sola; oppure metteva in scena un complesso di persecuzione; e si disponeva davanti alla Anne di tutti i giorni e guardava cosa facesse di bene e cosa di male. Voleva conoscersi, sia con lo sguardo del microscopio sia con quello del telescopio; e non aveva pace se non quando le sembrava di essere giunta all’autoconoscenza assoluta. Conoscersi significava essere indipendente, autonoma, capace di non farsi influenzare persino dal padre e dalla madre. «Non mi do tante arie come alcuni pensano», diceva: «conosco i miei innumerevoli difetti e le mie manchevolezze meglio di chiunque altro, con la sola differenza che so anche di voler migliorarmi, che migliorerò e che sono già molto migliorata». La sua condizione di ebrea perseguitata era terribile, ma Anne accettava fino in fondo questa condizione, la sopportava, la faceva propria con il coraggio intellettuale di un adulto.
Si misurava di continuo con gli altri membri della famiglia: il padre, la madre, la sorella. Ora amava la sorella come «una vera amica»: diceva che non c’era bisogno di educarla, perché era per sua natura la bontà, la simpatia e l’intelligenza in persona: tutte le «imperfezioni che lei non ha le ho io»; ora la criticava perché si lasciava convincere da chiunque e cedeva sempre all’influenza altrui. Non sopportava la madre: ne parlava con una crudeltà e una ferocia che a volte ci meravigliano. «Guardo la mamma con disprezzo ogni giorno più grande… Per me la mamma non è mia madre. Io stessa devo essere mia madre. Se avesse almeno un poco di umana comprensione, la dolcezza e la pazienza o qualche altra qualità, cercherei sempre di avvicinarmi a lei».
Specialmente all’inizio della segregazione, Anne adorava il padre: come il suo Pim: adorava la sua precisione: persino pelare le patate non era, per lui, un’attività qualsiasi ma un lavoro di precisione. Era l’unico al mondo cui volesse bene. «Solo papà — diceva — riesce a capirmi qualche volta». Ma nemmeno lui riusciva a riempire il suo piccolo nido: lei pretendeva dal padre qualcosa che non era in grado di darle; voleva che lui l’amasse davvero, non solo come figlia, ma «come Anne in quanto tale, cioè come persona». Lo trovava freddo; e gli nascondeva tutto quanto riguardava se stessa, senza mai metterlo al corrente dei suoi ideali, e allontanandolo da sé in modo volontario e cosciente.

Celata nell’Alloggio segreto, leggeva moltissimo. «La gente comune non sa quanto siano importanti i libri per uno che sta nascosto». Voleva leggere e scrivere libri, magari senza diventare uno scrittore, ma parallelamente al suo lavoro e alle sue occupazioni principali. I Diari sono pieni di citazioni ed allusioni a scrittori olandesi contemporanei, di cui a noi sfuggono il peso e il significato. In più leggeva molti libri di storia e manuali di mitologia classica, per cui Anne aveva una vera passione: mentre l’Antico Testamento appariva molto di rado, malgrado la sua professione di ebrea. Infine genealogie di re e di imperatori: o dinastie di stelle del cinema. «Continuo a dedicare molte domeniche a riordinare e sistemare la mia grande collezione di stelle del cinema, che ormai ha raggiunto dimensioni rispettabili».
La vita, quale Anne la vedeva nel fondo del suo Alloggio segreto, era un grande gioco. Lei cercava di cogliere i colori, le luci, i baluginii, gli improvvisi terrori, che talvolta oscuravano il suo carcere quando si avvertiva l’ombra di un ladro o di un estraneo.

Il Diario era lo specchio nel quale tutto si rifletteva: anche i litigi tra gli otto prigionieri, tra quegli adulti sciocchi, presuntuosi come apparivano ai bambini e ai ragazzi. E si rifletteva Dio, nel quale Anne aveva piena fiducia malgrado la terribile persecuzione. «Dio non mi ha lasciato sola e non mi abbandonerà», scriveva. E poi guardava in alto. «Non puoi chiedere a nessuno chi sia Dio, e che aspetto abbia, perché questo non lo sa nessuno. Ma se mi domandi che cosa sia, ti posso rispondere: guardati attorno, guarda i fiumi, gli alberi, gli animali e gli uomini, allora saprai che cosa è Dio… Questa meraviglia che vive e muore, che si riproduce e che si chiama natura, è Dio». Anne Frank si fermò a questo punto: a Deus sive Natura; mentre non sapeva quale fosse il dio tenebroso che si nascondeva dietro centinaia di nomi.
Uno degli otto prigionieri era Peter van Daan, un giovane olandese che aveva trenta mesi più di Anne Frank. Nella prima parte del Diario egli getta una luce pallida e insignificante, poi, a poco a poco, quasi senza accorgersene, Anne si innamorò di lui: ammesso che innamorarsi sia la parola giusta per evocare il suo sentimento. Ogni sera andava a trovarlo nella parte dell’alloggio dove viveva. Gli parlava a lungo: lo guardava: lo stringeva; lo abbracciava, lo baciava. Sebbene fosse debole e pallido, o proprio perché era debole e pallido, si sentiva attratta da lui. Guardavano ogni sera insieme il cielo azzurro, l’ippocastano spoglio sui cui rami brillavano minuscole gocce, i gabbiani e gli altri uccelli che, volando veloci, sembravano d’argento. Tutto li commuoveva al punto che non riuscivano più a parlare. «Finché esiste questo — Anne pensava — ed io posso vederlo, non posso sentirmi triste. Tutto era come doveva essere e Dio voleva che gli uomini fossero felici nella natura». «Finché esiste questo — Anne insisteva — ed esisterà sempre, so che in qualsiasi circostanza può esserci consolazione».
Qualche mese dopo, il 4 agosto 1944, qualcuno, non sappiamo chi, tradì gli otto clandestini. Il Diario si interruppe, ma fu salvato. Anne e la sorella Margot, che erano state trasportate nel lager di Bergen-Belsen, morirono di tifo nella primavera del 1945.