Le città globali diventano deserti

Il capitalismo delle piattaforme ha bisogno di eventi che passano da una città all’altra scandendo i nuovi calendari globali. Punta tutto su uffici e alberghi di lusso, su ristorazione e negozi, luoghi che sono uguali in ogni città del mondo. Innalza nuovi templi, in cui cultura e divertimento si incontrano fino a confondersi, sempre a pagamento. E sacrifica tutto sull’altare del nuovo turismo, con le case che non sono più luoghi dell’abitare e della costruzione di una comunità, bensì spazi del transito e della rendita senza che questo sia mai stato parte di un’economia di scambio della classe media proprietaria, ma solo di ingenti investimenti del capitalismo delle piattaforme, sostenuto dalla fiamma inesauribile dei tassi a zero. Complessi di edifici, per alberghi, negozi, ristoranti, uffici, sono comprati a leva dai grandi fondi che ridisegnano aree urbane e tirano a lucido interi quartieri, col merito di fare delle global city veri musei a cielo aperto, ma al contempo spostando le persone con minor potere d’acquisto verso immense e desolate periferie, con il conseguente sgretolamento di comunità faticosamente costruite negli anni. Questo cambio di paradigma dell’architettura sociale che per anni è stata chiamato gentrification mostra i suoi limiti quando diviene displacement: rimozione. Eccola la desertificazione, dei luoghi e delle anime.

La città non ha più un deserto cui opporsi, ormai lo ha introiettato. Solo in seguito arriva il Covid-19. Si annullano i grandi eventi, si abbassano le saracinesche, si osservano spettrali distese sconfinate di cemento prive di luoghi di aggregazione spontanei. A risolvere il problema questa volta forse non basteranno i flussi di capitale che attraverso gli algoritmi indicano il percorso ai rider che sfrecciano sulle biciclette, calibrano i prezzi degli affitti per una notte e gli ingredienti dell’insalata nell’ultimo locale alla moda che ha sostituito la lavanderia mantenendone le insegne. La flat white economy, che prende il nome da un modello di caffè di tendenza che ha segnato la nascita delle global city occidentali disegnandole a guisa di hipster, non era sostenibile già prima, creava sperequazioni intollerabili: poca ridistribuzione degli utili, troppo plusvalore per le piattaforme mentre i cittadini consumavano indebitandosi. Come in altri ambiti, la pandemia ha solo messo in luce che era la cosiddetta normalità a essere sbagliata. Oggi che attraverso lo smart working si è scoperta la possibilità di lavorare fuori dalla città, con spese molto più sostenibili e una qualità della vita più elevata, sembrano caduti anche gli ultimi argini all’avanzare del nulla. Per questo la global city deve essere ripensata dalla politica degli uomini, dandosi una forma che non si opponga al deserto che la circonda, ma a quello che ha introiettato dentro di sé. Bisogna pensare a un decentramento attivo, di modo che ogni quartiere abbia il necessario; a una riqualificazione ecologica delle infrastrutture e a una riconversione degli spazi inutilizzati. Al ritorno di superfici pubbliche che non creano profitto, ma coesione sociale. Bisogna immaginare nuovi modi di vivere e attraversare la città, altrimenti il rischio è che la crisi delle metropoli abbia effetti peggiori delle precedenti crisi sociali ed economiche che abbiamo vissuto.

con il collettivo I Diavoli

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