Le chiese di oggi, soprattutto quelle progettate dalle archistar, sono orrende, bislunghe, quadrate, a punta, a triangolo, a spirale, trapezoidali, o semplicemente della forma del terreno su cui sono erette. Non hanno più la pianta a croce, non hanno più neppure la facciata, l’elemento architettonico che per due millenni, pur nei diversi stili, rendeva riconoscibile l’edificio sacro. Ed i materiali – un tempo pietra, mattoni, marmo – sono oggi all’insegna dell’high tech. Per questo sembrano garage, capannoni industriali, ospedali, discoteche, autosaloni.
La Chiesa del Santo Volto a Torino, disegnata da Mario Botta, per esempio è un edificio a pianta centrale di 12 mila metri quadrati con sette torri perimetrali alte 35 metri; tristemente assomiglia a una centrale atomica con le prese d’aria di un mostruoso aspirapolvere. La chiesa di Richard Maier a Roma sembra invece una piscina, uno di quegli orribili poliplessi natatori che inorgogliscono i capoluoghi di provincia. Si trova nel quartiere popolare Tor Tre Teste ed è dedicata a Dio Padre Misericordioso, misericordia che Dio Padre crediamo deve esercitare al massimo grado davanti al progetto dell’architetto statunitense. Il segno distintivo di Maier si imprime nelle vele che raggiungono i 26 metri di altezza, rigorosamente in cemento mangia smog in ossequio alla cultura ecologistica della postmodernità, e rappresentano appunto le vele – a dire di Maier – della “barca della Chiesa” che ci “condurranno verso un nuovo mondo”. Una ben augurante profezia in stile Orietta Berti per cui “finché la barca va, lasciala andare”.
Il cemento è uno dei must dell’architettura moderna applicata alle chiese. Al suo fascino non si è sottratto Massimiliano Fuksas nel progettare la chiesa di san Paolo Apostolo a Foligno, un monolitico cubo in calcestruzzo armato, concepita come una scatola nella scatola di 30 metri di lunghezza e 26 di altezza, di una tracotanza epocale, nonché fuori contesto rispetto al territorio della tipica cittadina umbra dai tetti rossi. Fuksas che immaginiamo se non ateo almeno agnostico, stando alle giovanili esuberanze di matrice comunista, tratteggia con la sua scatola di cemento una teofania negativa, una via negationis proficua per dimostrare l’esistenza di Dio: è certo che Dio non possa abitare un luogo di tanta bruttezza, per cui ragionando a contrario Dio potrebbe esistere in ogni altro dove, per cui il mondo risplenderebbe tutto della presenza divina se si eccettua quel piccolo cubo.
Dalla tentazione di misurarsi con il sacro, non si è salvato neppure il ritroso Renzo Piano che ha progettato il Santuario di San Pio a San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia. Una struttura iperbolica, quanto i pellegrinaggi che il santo suscita, 6 mila metri quadrati per 7 mila posti, la pianta a spirale di Archimede, la copertura a esoscheletro in rame preossidato, all’interno ventidue enormi archi di pietra che si dipartano da un pilastro centrale, poggiato su un plinto di cemento armato dal diametro di ventisei metri e dalla profondità di sei metri, e che la fanno come il ventre di una primordiale megattera, a completare la facciata in cui due archi si intersecano a formare una “m” in stile McDonald che di notte, illuminata, ricorda un fast food.
Perché la bruttezza e l’insensatezza dominino l’architettura sacra è difficile da dire. La questione atterrebbe alla filosofia o alla teologia e potrebbe essere risolta indicando la persistenza del demonio nel mondo, la sua prevalenza in questo determinato evo, l’emergere di quella che Sant’Agostino definì “città terrena”, cioè la mitologica Babele dove regna sovrano il caos, e il brutto viene considerato bello. Che ci sia lo zampino del diavolo, il cui massimo inganno è dimostrare che non esiste, lo prova la disarmante ingenuità cui procedono le gerarchie della ecclesia quando concedono il nulla osta all’edificazione di nuovi templi. Edifici oggettivamente brutti, privi di qualsiasi idea di trascendenza, la cui funzione religiosa scompare di fronte alla insensata immanenza del progetto. È il tributo che la Chiesa, dopo il Concilio Vaticano II, paga alla modernità, alla postmodernità, alla contemporaneità, nel tentativo di risultare up to date annuncia con giubilo la propria sottomissione al secolo, anche dal punto di vista estetico.
Angelo Crespi
*L’articolo è pubblicato nell’ultimo numero de “Il Bestiario degli Italiani”