Apensarci bene il Novecento è stato interessato da due importanti rivoluzioni che riguardano l’aura dell’opera d’arte. La prima di esse viene analizzata nel 1936 da Walter Benjamin, il quale fornisce una chiara definizione di “aura”: l’essenza unica, irripetibile e originale dell’opera d’arte rispetto alle sue possibili riproduzioni, in sintesi l’hic et nunc dell’opera. Essa, che riprende il termine “aureola” (che circonda le teste delle figure sacre come l’aura circonda i manufatti artistici), si trova a coincidere con il significato culturale dell’opera. Una statua greca creata per onorare un dio, ad esempio, non cambia il suo significato se posta al centro del tempio a lui dedicato o in epoca medievale nascosta in qualche sotterraneo perché ritenuta pagana, poiché la sua aura rispecchia un vero e proprio carattere culturale, unico, che agisce in ogni istante. Questo valore culturale è il primitivo valore d’uso dell’opera d’arte, che nasce nella preistoria come rituale che non permette la contemplazione. L’opera non è creata per essere vista dagli uomini, ma per onorare la divinità di turno.
Dopo che Gutenberg rivoluziona la vita sociale con l’invenzione della stampa e Nietzsche prende atto della morte di Dio le condizioni dell’aura dell’opera si modificano in modo permanente. Il valore culturale scompare per fare spazio ad una nuova aura, che rispecchia i tempi moderni, l’aura d’esponibilità. Con l’imporsi sempre più forte di tecnologie atte alla riproduzione, il terremoto artistico prodotto dalle innovative metodologie delle avanguardie storiche e le prime avvisaglie di quella che diventerà la società di massa, l’aura perde di sacralità, si immerge nella vita e trova la sua ragion d’essere nel mostrarsi alla divinità che si impone dall’Illuminismo in poi: l’uomo. Questa modificazione produce una percezione totalmente nuova nei confronti di un’arte che deve essere contemplata, che ha una presenza a volte “banalizzata” (il ready-made), a volte riprodotta (i manifesti messi in mostra alla Dada Messe del 1920). I fatti sopradescritti prendono parte anche alla forte trasformazione dello spazio espositivo, la nascita del white cube, nato come rivoluzione in ambito avanguardista grazie soprattutto alle riflessioni di due artisti quali Piet Mondrian e Costantin Brânçusi e poi sistematizzato a partire dagli anni sessanta in quell’“ideologia dello spazio espositivo” che ha nel vuoto la sua caratteristica principale e che Brian O’Doherty descrive così:
La sacralità di una chiesa, il formalismo di un’aula di tribunale, il fascino di un laboratorio sperimentale si uniscono all’eleganza del design per produrre una camera dall’estetica unica. All’interno di questa camera il campo di forze percettive è così potente che, una volta fuori, l’arte può scadere in una dimensione terrena. Al contrario, le cose diventano arte in uno spazio in cui potenti idee sull’arte si concentrano su di esse.
Brian O’Doherty
Non a caso il white cube si impone agli albori del postmodernismo, con l’ascesa della figura professionale del curatore, demiurgo dell’evento mostra e l’interpretazione che assurge a ruolo di bussola nel vuoto estetizzato della galleria, una sorta di aura spaziale sprigionata dal luogo stesso, tra le sparute opere, ognuna con la sua aura individuale, distanziate per non permettere una qualche collisione tra esse. È il dominio dell’aura postmoderna, che ha in parte perso i tratti descritti da Benjamin e sembra indirizzata più che ai visitatori al Grande Altro descritto da Mark Fisher. Questo per arrivare alla seconda rivoluzione che ha interessato l’aura dell’opera d’arte, che porta con sé un dilemma non indifferente: se la riproduzione dell’opera non ha più nulla di materiale, ma entra nel flusso del Word Wide Web come infinita sequenza di numeri binari, possiede ancora un’aura? Per trovare una risposta verrebbe da forzare il concetto di inemendabilità di Maurizio Ferraris: l’aura può essere corretta o trasformata attraverso il mero ricorso a schemi concettuali? Si, lo dimostra il white cube, quindi essa è un concetto, un senso dato dall’uomo.
Se l’aura (come status nel white cube, e quindi postmoderna) è un’invenzione dell’uomo, prima della sua teorizzazione c’era comunque qualcosa. Questo qualcosa, informe e inemendabile (questo si) è come se fosse stato trasformato in forma, struttura modificabile attraverso la nostra mente. Questo qualcosa è una sorta di irrazionale fascinazione nei confronti dell’opera d’arte che ha accompagnato l’intera storia dell’umanità. Questa fascinazione, immersa nel flusso dell’Internet, si piega a tutte quelle regole a cui gli elementi digitali sottostanno. La dilatazione del tempo e l’ubiquità a cui sono sottoposte le opere digitalizzate, ne più e ne meno di qualunque altro elemento nel flusso, le portano a perdere quello status che gli è stato conferito dalla galleria. L’enorme quantità di materiale nella rete, inoltre, ne trasforma la fruizione in un’azione veloce e disinteressata, in confronto ad una attenta e certosina tipica dello spazio fisico. L’aura, in queste opere riprodotte digitalmente, sembra scomparire,come possiamo attestare semplicemente analizzando lo spazio digitale. Social network come Facebook o Instagram e la ricerca per immagini di Google hanno una caratteristica in comune, quella di, basandoci sulla storia delle esposizioni, ricordare la vecchia quadreria del Salon. Un mosaico di immagini, affiancate e ordinate nell’horror vacui. Una quadreria digitale che non permette contemplazione, ancor più di quella tradizionale, perché è individualizzata: la quadreria che si sta guardando sul proprio dispositivo tecnologico è diversa da quella di chiunque altro e ci si può interagire a proprio piacimento.
Ma in realtà un certo tipo di contemplazione è presente anche sulla rete: l’opera che si vuole visionare in maniera accurata può essere selezionata e ingrandita. Ed ecco che il dominio dell’occhio, la primitiva fascinazione per l’opera, si lascia nascondere dal flusso, ma è presente, una sorta di “aura digitale”, elevazione alla potenza dell’aura d’esponibilità. Pensandoci bene il piano digitale ha un’elevata quantità di caratteristiche simili al cubo bianco se leggiamo l’analisi di O’Doherty sul white cube ma pensiamo allo spazio digitale: “La loro superficie intatta non è intaccata dal tempo e dalle sue vicissitudini”, o “L’arte esiste in una specie di eternità dell’esposizione”, o ancora “Lo spazio fa pensare che mentre gli occhi e le menti sono ben accetti, i corpi non lo sono”.
In conclusione, l’opera d’arte non smette di avere una qualche tipo di aura postmoderna, seppur celata dall’immaterialità e la tendenza all’interazione del digitale che rende tutto informazione. Questa pervasività del digitale ha prodotto anche non poche reazioni artistiche sul piano analogico, la pittura espansa degli anni 2000 o il forte ritorno della performance negli anni Dieci del XXI secolo. Performance che, a volte, ripetono azioni di decenni prima, in una sorta di revival che tradisce le intenzioni originali della performance, la sua irripetibilità, e mostra la nostra strutturazione del pensiero ormai modificata permanentemente dal piano digitale dell’esistenza.