Nell’era in cui i filosofi si affannano a spiegare l’attualità, calice avvelenato del pensatore che si fa opinionista per delirio di fama, nel crogiuolo di dibattiti astrusi, astrologici, distanti dalla cruda, fetida carne del mondo, Franco Rella continua, con ostinazione monastica, a ribadire le questioni capitali: la vita, la morte, la tragedia, il senso dell’arte, il grido, l’abisso. Pare, Rella, uno di quei sapienti che stanno alle porte della città, a dispetto di mercanti e venditori di destini: segna cifre e ideogrammi sulla sabbia, divina le nuvole in relazione ai palazzi. Non c’è nulla di oracolare, lì, ma la cruenta potenza di un pensare non ordinario, che assume in sé il privilegio del mostruoso. Nessuna risposta, nessuna avvincente polemica: l’ustione, semmai, la scabrosa indagine della propria vertigine, la lotta primaria, insomma; perché si vive se poi si muore?, che cos’è la morte?, come si fa ad amare la cosa che muore?
L’ultimo libro di Rella, L’arte e il tempo (Jaca Book, 2021), ha una natura sapienziale, diretta, lascia spine sulla lingua, un sentore di inquietudine, la rovina nella gloria. In capitoli anche rapinosi si parla, tra l’altro, del rapporto tra l’arte, che supera il tempo, che eterna l’effimero, con la morte:
“La morte è la fine del tempo, ma se l’opera si pone nello spazio dell’assenza di tempo, l’opera pone paradossalmente se stessa e l’artista nella condizione di non poter morire. L’assenza di tempo è il tempo della morte, ma è anche inevitabilmente il tempo in cui nulla può avvenire, nemmeno la morte. Stare dunque in prossimità della morte, senza mai possederla, è l’esercizio dell’arte”.
Si parla della bellezza come rapporto con il terribile, se ne estrinseca la forza distruttrice, enigmatica, ineffabile; il fatto che l’arte, proprio perché s’intrattiene con il bello, affronti l’osceno, il laido:
“La poesia e l’arte chiamano alla verità magmatica che sta sotto le parole, e che le parole nascondono. Orrore, fogna, lordura, istinto, sfrenatezza… L’arte solo bella è dunque l’assenza della vera bellezza”.
L’arte crea un mondo per distruzione, partorisce inchinandosi a ciò che si sfascia: è il sacrificio, patto implicito tra artista e opera, ripudia tutto e tutto ti sarà dato:
“Il gesto dell’artista è un gesto cosmogonico. Crea un mondo ma questa creazione muove da una violenza implicita al suo gesto. L’artista lo sa. È il rischio che egli sa di dover ogni volta affrontare: decostruire per costruire. O, per usare una straordinaria espressione di Kafka, l’artista è impegnato in una distruttiva costruzione del mondo”.
Verità arcaica, bianca e dura: l’arte è violenza. Nulla di luttuoso però è in questo: “L’artista, ha detto Rilke, deve giungere al limite estremo, all’ultimo confine”. L’artista è piantato nella morte, piantona la morte: già, ma come salvare ciò che muore, la cosa che appena la nomini si disfa? “Se le cose vivono nel trapassare capiscono che dicendole semplicemente tu le lodi”, scrive Rella. Tutto muore per risorgere in noi, allora, il punto della massima disperazione è quello da cui scaturisce la creazione, scandita di fuochi: “Vedi, io vivo. Di che? Né infanzia né futuro/ vengono meno… Innumerevole esistenza/ mi si sprigiona nel cuore”, scrive Rilke. La morte è la possibilità per cui una cosa, un viso, si immilla, esplode – la morte non è la fine ma il punto d’avvio.
Il libro si conclude con un repertorio di opere, che non spiegano, non illustrano, non sono didascaliche al pensare, stampelle al verbo. Semmai, turbano – costruiscono, cioè, un libro nel libro. Si va dalle sculture stupefatte dell’Antelami all’Origine del mondo di Courbet, da Diego Velázquez a Van Gogh, dall’Autoritratto nudo di Dürera un fotogramma tratto da Apocalypse Now, l’indicibile faccione di Marlon Brando. Il tormento delle cose ultime, perdute, senza ricatto, collocate tra oblio e memorabile – di cos’altro deve occuparsi il pensatore, che con un coltellino da ragazzo sega i garretti del gigante, mette sotto scacco le convenzioni, raduna macerie e cerbottane? Che gli altri facciano chiasso – noi, siamo andati ad ascoltare il filosofo.
Siamo disposti a credere che l’arte vinca il tempo, anzi, che l’arte sia la misura del tempo (da alcuni manufatti diamo cronologia all’evoluzione umana; le chiese romaniche ci aiutano a capire quel periodo storico; Raffaello e Michelangelo sono il Rinascimento come Bernini rappresenta l’era barocca). Eppure, anche l’arte svanirà – in qualche modo, già svanisce. Dunque, come si regola il rapporto tra arte e tempo?
C’è un contesto in cui l’opera si colloca per cui possiamo dire che Bernini sta al barocco. Ma il rapporto che io ho cercato tra l’arte e il tempo si pone là dove l’arte interroga e mette in questione il tempo. Le immagini che sono nel libro non vogliono assolutamente essere di supporto al testo, ma credo possano aiutare a capire cosa voglio mettere in luce. La sequenza delle immagini si apre con l’“Inverno” di Antelami, un vecchio che rappresenta la fine dell’anno, ma anche la sua stessa fine, e forse anche la fine del mondo. Questo mi pare di vedere nei suoi occhi spalancati, allucinati. In copertina ho scelto un quadro di Joseph Cornell che mette una serie di orologi, il tempo, e un pappagallo in una gabbia. Il mio libro non vuole parlare dell’arte nel tempo. Vuole scoprire come l’arte pensa il tempo.
Oggi l’arte celebra l’effimero: è decorativa o facilmente provocatoria. Nasce nel tempo per esserne inghiottita. L’arte non è più miliare, non misura il tempo. Siamo destinati dunque a ‘perdere tempo’, siamo forse in un tempo ormai a-storico, fuori dalla Storia, di cui siamo spettatori inermi?
L’ultimo scritto di Gilles Deleuze, L’immanenza, una vita, coglie ciò che l’arte è diventata, ciò a cui pare il pensiero voglia tendere. Non c’è passato e non c’è futuro, ma solo l’istante, l’“ecce”, l’“ecco qui”. L’“ecceita” di Deleuze è un presente assoluto e indifferenziato, intransitivo. È il tempo di alcune esperienze dell’arte che abita la modernità estrema, in cui c’è una sottrazione del tempo, una sottrazione della storia e delle storie.
Nel suo libro i riferimenti – culturali oltre che artistici – sono per lo più legati al Novecento. Pare che il secolo scorso sia stato un immane Moby Dick, una esplosione di pensieri, di intuizioni, a fagocitare tutto. È come se il Novecento abbia squalificato ogni altro pensare: oggi in effetti il pensiero è demandato alla scienza, alla strategia dei governi, all’economia. È così?
Mi rendo conto che il mio pensiero dialoga soprattutto con il Novecento, con l’immane Moby Dick del Novecento come lo definisci. Ho l’impressione di muovermi lungo i sentieri tracciati da Kafka, da Proust, da Beckett, da Fontana e da Bacon. Lungo questi percorsi incontro le domande con cui essi hanno interrogato il mondo, e imparo io stesso a interrogare anche l’opacità del mondo in cui viviamo, in cui pare ci siano solo risposte. E queste risposte rinviano all’efficacia delle strategie conoscitive, non al senso che esse esprimono. Al senso che esse dovrebbero cercare.
In un capitolo, lei ragiona sui rapporti tra “arte e violenza”. Ecco, oggi l’arte è didattica, semmai prona allo show, allo spettacolo, al limite educa. Deve indignare, forse, ma mai sconvolgere. E l’artista, servo del denaro, si mette al servizio del proprio tempo. È così? Cosa è accaduto?
La poesia è violenza e rischio. Mette in questione come ha detto Bataille “i linguaggi del giorno”. La poesia invita alla violenza. Quando leggo un poema sono indotto a destrutturare la sua costruzione. Procedo con quella che Kafka ha definito una zerstörende Aufbau, una costruzione che procede attraverso la distruzione. “Servo del denaro” chiedi? Velázquez risponde ai suoi committenti da cui era pagato e strapagato e tuttavia mette ugualmente in questione l’arte del suo tempo, mette in questione anche il potere a cui deve rispondere. Nelle Meninas al centro del quadro c’è lui, con il suo pennello, accanto stanno le Meninas che egli non guarda, e i regnanti che sono solo un opaco riflesso in uno specchio in fondo alla sala.
Mi dica qual è l’opera – artistica e letteraria – che più la ha folgorata in questi ultimi tempi. Un’opera che conforti nella dedizione, che ci stimoli a superare questo grado zero di rabbia, di negligenza, di grigiore.
Una vera folgorazione: La colazione nell’atelier di Édouard Manet a Monaco, quadro incontrato nell’Alte Pinakothek dove era stato spostato per lavori alla Neue Pinakothek. Mi pareva di non averlo mai visto. In primo piano un giovane. Negli occhi di quel giovane, come in quelli di Berte Morisot nel quadro Il balcone c’è mistero, c’è un segreto inquietante. Poi Friedrich Dürrenmatt, la rilettura del Minotauro e dei testi legati alla quella che lui definisce la drammaturgia del labirinto.