È uno degli intellettuali più noti e prestigiosi del Mediterraneo, romanziere affascinante e storico innovativo che da Le crociate viste dagli arabi (1993) a Gli scali del Levante (1997) ha saputo imporre lo sguardo dell’«altro» fin dentro la cultura europea, muovendo dalle sue radici libanesi come dal suo acquisito protagonismo sulla scena cultura francese, che lo ha condotto nel 2011 ad occupare lo scranno dell’Académie française che era stato di Claude Lévi-Strauss. Tra i protagonisti del Festivaletteratura in corso fino a domenica a Mantova, Amin Maalouf ha presentato Il naufragio delle civiltà (La nave di Teseo, pp. 346, euro 20, traduzione di Anna Maria Lorusso), il libro con il quale conclude la sua riflessione, iniziata alla fine degli anni Novanta con le Identità omicide e Un mondo senza regole (entrambi pubblicati da Bompiani) sulla deriva apparentemente suicida di un’umanità colpita dal razzismo, dalle guerre e dal terrorismo in nome della religione e dell’«identità», dalla distruzione sistematica delle stesse condizioni di vita sul pianeta. Di fronte a questa apocalisse quotidiana, Maalouf evoca il mondo perduto del Levante, uno spazio simbolico di incontro tra fedi e culture che non si limita al termine con il quale i francesi indicavano tradizionalmente il Medio Oriente e in modo particolare i paesi che si affacciano sulla sponda orientale del Mediterraneo, ma lascia intravedere una terra della possibilità e del sogno.
Secondo lei il «naufragio» che incombe sull’umanità ha un’origine: la fine di quel mondo levantino che rappresentò, anche se tra molte contraddizioni, una possibilità di convivenza e sviluppo plurale. Di cosa si tratta?
Ciò che caratterizza questa vasta regione dai contorni imprecisi che un tempo era chiamata Levante, è che è stata a lungo una frontiera, vale a dire sia una zona di incontro che di conflitto tra le due principali componenti dell’umanità: l’Occidente cristiano e l’Oriente musulmano. Inoltre, grazie alla sua storia, il Levante fu la culla delle tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo e islam. Di conseguenza, tutto ciò che accade in questa zona ha ripercussioni emotive, intellettuali e politiche su molte società in tutto il mondo. Se nei paesi del Levante esistessero società dinamiche, democratiche, aperte e tolleranti che permettessero alle diverse comunità religiose ed etniche di vivere in armonia, un tale evento trasmetterebbe serenità e fiducia nel futuro in tutto il pianeta. Al contrario, il fatto di assistere ad uno spettacolo quotidiano di intolleranza, violenza e regressione morale contribuisce a diffondere diffidenza, odio e paura dell’«altro» ovunque. È per questo motivo che le crisi ricorrenti vissute dalla regione in cui sono nato hanno avuto conseguenze globali così disastrose.
Partendo dalla sua stessa biografia, come dalla storia della sua famiglia, lei descrive i contorni di un «universo levantino» nel quale differenze e appartenenze si intrecciavano in modo virtuoso. Un tema già centrale in molti suoi romanzi. Come tracciare le coordinate di questo mondo perduto?
In realtà, ho potuto osservare questo universo solo quando era ormai avviato al suo tramonto, e forse anche per questo ho cercato di farlo rivivere nei miei romanzi. Ciò che ho conosciuto di prima mano è stata soprattutto la realtà del Libano. È in quel paese che sono nato e ho trascorso la mia giovinezza, fino a quando avevo ventisette anni. Ho vissuto periodi di pace, progresso, una modernizzazione accelerata, ma poi ho conosciuto anche la guerra civile, fin dal primo massacro, nell’aprile del 1975, di cui sono stato mio malgrado testimone oculare, visto che è accaduto nella strada di Beirut in cui vivevo, proprio sotto la finestra del mio appartamento. Un’altra storia levantina che conoscevo da vicino era quella dell’Egitto, dove viveva la famiglia di mia madre. Ed è quasi esclusivamente attraverso i suoi occhi che ho conosciuto quella realtà, visto che l’Egitto cosmopolita nel quale era cresciuta lei fu cancellato dalla rivoluzione nazionalista del 1952, quando io avevo solo tre anni. Indirettamente mi sono imbattuto anche in altre esperienze riconducibili a questa stessa cultura del Levante, come quelle dell’Asia Minore, dove nacque mia nonna materna, o quella di Aleppo, dove un tempo mio nonno paterno dirigeva una scuola. Posso dire però di essere stato immerso fin da piccolo in questa cultura, della quale si è nutrita la mia immaginazione e la mia creatività.
Ma in che misura quella capacità di far incontrare e convivere le differenze culturali e religiose, propria del Levante di un tempo, può rappresentare un antidoto al «naufragio» che annuncia il suo libro?
Come dicevo, ciò che potrebbe rendere la diversità levantina un «antidoto» ai veleni dell’identità, oggi così diffusi, è la consapevolezza che una convivenza armoniosa in questa regione del mondo altamente simbolica potrebbe diffondersi ovunque. Naturalmente, ciò non significa che i modelli di società così presenti nell’universo simbolico della mia giovinezza fossero idilliaci, o che avrebbero potuto essere riproposti altrove. È vero che il ricordo del Libano o dell’Egitto di un tempo suscitano in me, come in tutti coloro che li hanno conosciuti, un’immensa nostalgia. Ma ognuna di queste società presentava anche grossi difetti e profonde contraddizioni che spiegano la loro incapacità di resistere alle turbolenze della Storia. Per quanto riguarda il Libano, il suo sistema di «quote», volto a mantenere un certo equilibrio tra le numerose comunità religiose, si è alla fine rivelato «malato» e distruttivo. E anche per quanto riguarda l’Egitto di prima del 1952, quell’atmosfera cosmopolita era accompagnata da un sistema sociale e giuridico scandalosamente ingiusto in cui le comunità di origine straniera godevano di privilegi scandalosi, tali da alimentare un profondo risentimento nella popolazione locale che finirà per provocare una rivolta devastante.
A questo proposito, lei fissa anche una data molto più recente nella quale le cose sarebbero definitivamente precipitate: quel 1979 che definisce come «l’anno del grande sconvolgimento», quando debuttarono la rivoluzione islamica in Iran e quella conservatrice di Thatcher a Londra.
Credo sia innegabile che intorno a quell’anno si sono verificati eventi significativi, che hanno contribuito notevolmente a plasmare il mondo in cui viviamo oggi. Da un lato, l’Unione Sovietica di Breznev, dimenticando le debolezze del proprio regime, finì intrappolata nella disastrosa avventura afgana, dall’altra gli Stati Uniti, dopo anni di crisi politiche, sociali e morali, a partire dallo scandalo Watergate e dalla guerra del Vietnam, videro, al pari del Regno Unito, emergere una nuova destra priva di complessi, incarnata da Reagan, e da Thatcher. In quello stesso periodo, il cosiddetto shock petrolifero, la debacle del nazionalismo arabo e l’ascesa di un islam politico radicalizzato hanno completato il quadro internazionale facendoci entrare in una fase nuova che ha completamente rovesciato la nostra percezione del mondo. Da quel momento in poi è il conservatorismo che si autoproclama rivoluzionario, mentre ai sostenitori del «progressismo» e della sinistra non resta che cercare di conservare le conquiste realizzate fino a quel momento.
Nel libro descrive concretamente il mondo levantino. Come quando suo nonno, libanese che lavorava al Cairo, si recava al Ministero egiziano dei lavori pubblici dove c’era un funzionario greco di nome Konstantinos Kavafis, che diventerà uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. Culture, lingue e fedi differenti non impedivano che uomini straordinari incrociassero il loro cammino. Qualcosa divenuto impossibile nell’era della Brexit e di Trump?
In effetti temo proprio che sia così. Il grado di diversità culturale che si riscontrava nell’Egitto nella prima metà del XX secolo non esiste più in questa regione del mondo e credo sia diventato sempre più raro in tutto pianeta. E anche se le realtà sociali e politiche che rendevano possibile questa pluralità di voci potrebbero apparire come una sorta di retaggio dell’era coloniale, resto convinto che il paese avrebbe potuto conoscere un’evoluzione meno brutale, più vantaggiosa per tutti i segmenti della popolazione. L’Egitto avrebbe avuto tutto da guadagnare ad avere un leader come Nelson Mandela, che dopo aver combattuto duramente per restituire la dignità al suo popolo, dopo la vittoria si sarebbe mostrato magnanimo nei confronti dei suoi ex nemici, cercando di convincerli a rimanere nel paese per contribuire alla sua ricostruzione. Ma Mandela è un’eccezione, in tutti i tempi. Non solo, uno dei maggiori problemi nel mondo di oggi è rappresentato proprio dall’incapacità delle nostre società, come dei nostri leader politici, a gestire la diversità che accompagna la globalizzazione. È questo che sconvolge l’atmosfera politica e intellettuale di così tanti paesi. Ed è sempre questo che crea nel mondo di oggi la sensazione di un imminente e, almeno in apparenza inevitabile, naufragio.