Partendo dal proprio, drammatico, divorzio, l’economista Loretta Napoleoni ci conduce con ‘Sul filo di lana’ in un viaggio sorprendente tra pratiche, significati e storie di un’arte antica, il lavoro a maglia, capace di ritessere gli strappi dell’esistenza
Chi è nata tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta e ha vissuto gli anni Settanta in un certo milieu studentesco, fatto di autogestioni, collettivi femministi, assemblee e doposcuola popolare nei primi centri sociali agli esordi, non è sfuggita, non può essere sfuggita, alla dittatura, oltre che degli zoccoli (scomodissimi) e delle gonne a fiori, del lavoro a maglia. Sferruzzavamo in assemblea, al collettivo, negli intervalli delle lezioni al liceo. Facevamo sciarpe, maglioni larghi e coloratissimi, scialli. Persino temibili due pezzi di filo di cotone, che una volta bagnati ti restavano incollati umidi al corpo per ore. Intrecciare diritto e rovescio, riappropriarsi del fai da te e della non riproducibilità tecnica anche nella moda faceva parte di quel corredo di attività ribelli e innocue, sullo sfondo, negli anni Settanta, di un nocciolo ben più duro e talvolta feroce di antagonismo politico e sociale. Nello stesso tempo manteneva un filo, alla lettera, un legame affettuoso con le madri, che per altre cose magari contestavamo ma che quel saper fare ci avevano tramandato, reinterpretato però in stile hippy.
Il ricordo di questa attività secondaria ma a quanto pare densa di significati imprevedibili è riaffiorato leggendo l’ultimo libro di Loretta Napoleoni, Sul filo di lana. Come riconnetterci gli uni agli altri (Mondadori, 172 pp. 20 euro). Un libro spiazzante a prima vista per la difficoltà di sovrapporre il profilo della Napoleoni, economista, esperta di geopolitica e terrorismo internazionale, ad un’attività così domestica e “banale”. Spiazzante anche perché Napoleoni ci mette molto di sé e della sua vicenda intima, partendo da un dramma personale, un difficile divorzio, per parlare della sua passione insospettabile per il lavoro a maglia, di cui svela le virtù terapeutiche, per i singoli e per la società intera. Un capitolo è dedicato proprio al rapporto complicato tra il femminismo e il lavoro a maglia, complicato perché in realtà rientrava nelle attività connesse ad una visione stereotipata dei ruoli di genere, ma nello stesso tempo creativa e liberatoria nel senso di cui abbiamo parlato sopra.
E questa capacità del lavoro a maglia di sfuggire e rompere i cliché Napoleoni lo rivela nelle tante storie che racconta di uomini magliai. Il maschio “sferruzzante”, per quanto minoritario, è una delle immagini moderne più efficaci e accattivanti della rottura degli stereotipi di genere, vedi gli Hombres Tejedores, collettivo cileno che lavora ai ferri in pubblico come gesto politico contro la dittatura dei ruoli. Un’idea di mascolinità non necessariamente fluida o trasgressiva come gli Achille Lauro di moda adesso, ma certamente affrancata da vecchi schemi.
Sul potere liberatorio della maglia nel libro ci sono interi capitoli che ripercorrono anche fasi più o meno recenti del knitting (sferruzzare, ndr) politico e militante. A cominciare dalle tricoteuses, che facevano la maglia ai piedi della Ghigliottina durante il Terrore Rivoluzionario, ai più allegri yarn bombing o guerrilla knitting, happening a base di lavoro ai ferri o all’uncinetto collettivo organizzati da realtà come il Revolutionary Knitting Network , per esempio in occasione del G8 del 2002. O esperienze come quella dell’artista danese Marianne Jorgensen che, nel 2006, ha rivestito un carro armato di una coperta rosa per protestare contro l’impegno del suo paese nella guerra in Iraq.
Ma la versatilità del filo di lana rivela aspetti sorprendenti nel capitolo sulla scienza, dove si dimostra che quell’attività ripetuta, ma in realtà sempre diversa è capace di stimolare entrambe gli emisferi del cervello e quindi fa bene ai nostri neuroni e persino all’umore. E deve avere qualche connessione profonda con l’essenza stessa dell’universo, se la matematica Daina Taimina ha deciso che il modo migliore per creare il modello di un oggetto geometrico complicato come un piano iperbolico fosse farlo all’uncinetto. I piani iperbolici sono delle superfici la cui curvatura non è positiva come quella di una palla o nulla come il piano di un tavolo, ma negativa e ondulata come quella dall’insalata riccia o di certi molluschi marini. Il risultato all’uncinetto sono complicate strutture che ormai hanno scavallato nel mondo dell’arte: se n’è visto un esempio all’ultima Biennale Arte di Venezia.
Accanto alla ricostruzione avvincente della storia antichissima della maglieria e dei risvolti economici di una produzione di indumenti, che spazia dagli eschimesi agli antichi Egizi, il versante più coinvolgente dell’approccio di Napoleoni resta quello che ricostruisce la rete intima e personale, partendo dai racconti della nonna che produceva come una forsennata caldi calzettoni per i soldati al fronte, fino ai collettivi di donne che realizzano microvestitini di lana per i bimbi prematuri. Ed è molto potente la metafora concreta della maglia che unisce e che lega, ritesse reti sociali e cura le smagliature della nostra esistenza.
In questa trama intellettuale ed esistenziale esistono anche le coincidenze. Mentre leggevo questo libro mi stavo occupando anche delle testimonianze delle donne deportate nei lager nazisti. E mi sono imbattuta in queste parole di Giuliana Tedeschi, sopravvissuta al campo di Ravensbrück: «Le donne sono maglie, se una si perde, si perdono tutte. Là dentro, almeno, era così; ci sentivamo unite dallo stesso filo di vita, che non doveva recidersi. Forse è perché le donne portano di più il proprio mondo dentro di sé e hanno maggior desiderio di trovare corrispondenza con l’altro».