Nei Paesi in guerra, da Damasco fino a Donetsk, i teatri e gli auditorium sono sempre rimasti aperti al pubblico, anche nei momenti più difficili, anche nei luoghi più disastrati. “I concerti, gli spettacoli – dicevano – aiutano le persone a sopravvivere, le melodie, le voci, i suoni servono a coprire il rumore delle bombe e dei colpi di kalashnikov”. In uno scenario bellico tradizionale il nemico non è invisibile: invece di sanificare gli spazi interni, si mettono in sicurezza quelli esterni e si organizza un piano di evacuazione sottoterra qualora gli attacchi arrivassero dal cielo. Transenne, autocarri, soldati. Sono misure essenziali, per restare in vita, continuare comunque a vivere. È un gesto culturale prima ancora che politico, ma ci vuole coraggio per salvare lo spirito, curare l’anima. Il solco era stato già tracciato dai religiosi, preti, rabbini, imam, che cullavano i morti anche in tempi di guerra. Nessuno deve restare solo, nessuno deve morire da solo. Anche a costo di creare un assembramento, che sia un funerale, una commemorazione, un concerto, uno spettacolo teatrale che in gergo militare si traduce in “target”. E un missile, a differenza di un virus, ti trasforma in cenere. Dopo il soffio, un nanosecondo dopo, non c’è terapia intensiva ma solo l’aldilà. Ed è un inferno, anche se esiste il paradiso.
“Se in una emergenza come questa il Paese si divide, i problemi e i rischi diventano molto più grandi. Io penso che la risposta sia fare ognuno di noi il proprio dovere nel modo migliore possibile. Anche io sto cercando di fare semplicemente questo. E se ognuno fa il proprio dovere ricostruiamo quel clima di coesione sociale di cui c’è un grande bisogno” ha detto il Ministro della Cultura Dario Franceschini a seguito dell’ultimo DPCM che ha sancito la chiusura di teatri e cinema, chiedendo “alle personalità della cultura” che hanno “una grande influenza sull’opinione pubblica” perché “testimonial di una forza così grande com’è in Italia la cultura, di dare un contributo per la coesione sociale”. Insomma, da noi, in tempi di pace, vengono chiusi teatri e cinema, e i loro animatori invece di occuparli fisicamente, accolgono gli appelli invitando le persone a stare a casa, a collegarsi su piattaforme in streaming, ad accelerare quel distanziamento tra gli interpreti di scena e il pubblico, in nome delle nuove sacre tecnologie. A opporsi sono pochi, e quei pochi hanno una sensibilità superiore. Come il direttore d’orchestra Riccardo Muti, che in una lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, pubblicata sul Corriere della Sera, ha chiesto la riapertura di cinema e teatri. Lo stesso Riccardo Muti che a luglio ha voluto celebrare le personalità curde e siriane, in ordine Hevrin Khalaf e l’archeologo Khaled al-Assad, entrambi vittime dell’Isis, con un “Concerto per la Siria” al Parco Archeologico di Paestum (nella foto in copertina).
Non si vuole difendere la cultura ufficiale, ma rimettere in discussione il falso eroismo di chi pretende salvarla. Dario Franceschini, a differenza di Filippo Tommaso Marinetti, non lancia uno schiaffo intellettuale, ma depone le armi, si arrende di fronte a un virus. Letale, sicuramente, quanto la paranoia degli ipocondriaci mascherati da ultra-responsabili. È la sottile linea che separa l’espiazione del dolore dall’abbruttimento culturale, la civiltà dalla viltà, il futurismo dal conformismo. Hanno abbandonato da mesi la nave che affonda, ma continuiamo a credere che a fuggire siamo solo noi: topi e puttane.