Oggi si aprono gli archivi sul suo pontificato. Non esiste il documento che lo incrimina o lo assolve, ma si potranno capire le ragioni del silenzio sulla Shoah
di Alberto Melloni
Oggi aprono gli archivi vaticani relativi al pontificato di Pio XII (1939-1958). Una giornata impegnativa per le due popolose tifoserie divise sulla posizione della chiesa cattolica davanti alla Shoah.
La prima tifoseria è quella che ha trasformato la questione “dei dilemmi e dei silenzi di Pio XII” (per dirla col titolo d’un famoso libro di Giovanni Miccoli) nella caricatura antistorica del “papa di Hitler”. Perché sul fatto che papa Pacelli abbia scelto il “silenzio” sugli ebrei non ci sono dubbi. Che in pubblico non abbia mai pronunciato la parola “ebrei” durante la guerra è un fatto. Che non abbia dato corso a quella svolta che stava portando il predecessore a pubblicare una enciclica contro il razzismo è certo. Ma non per questo lo si può trasformare in fautore del piano genocida dei nazisti e dei fascisti.
Il suo silenzio è corposo: talmente corposo che egli domanda all’ecclesiastico che sarebbe diventato il suo successore: «Cosa pensa il mondo del mio silenzio sul contegno dei Germani?». Ma questo silenzio non si identifica con l’indifferenza totale o l’assoluta inazione davanti allo sterminio: se c’è la convinzione di poter rinviare l’azione o di poterla ridurre a deprecazione, è perché prevale la convinzione che il “vero” pericolo sia il comunismo sovietico e che davanti ad esso il totalitarismo in Europa occidentale fosse un male di cui era proprio l’internazionalismo sovietico a portare la responsabilità. Pacelli insomma non fu né implicitamente né esplicitamente un fautore delle politiche genocidarie o uno spettatore indulgente davanti al loro perpetrarsi. E, contrariamente alle tesi di chi lo vorrebbe colpevole di tutto, Pio XII davanti alla Shoah assomiglia terribilmente a tutti gli altri cattolici: il che pone un problema squisitamente storico.
La seconda tifoseria è quella che ha disegnato la simmetrica caricatura del “papa che salvò gli ebrei”. Caricatura anche essa. Perché Pio XII, gli ebrei, non li salvò: non ne salvò sei milioni, né cinque, né quattro, nemmeno tre e – se si escludono quelli dell’Urss – nemmeno due. Forse favorì o pensò di favorire l’azione di soccorso messa in opera da conventi e case religiose sia a Roma sia in altri paesi. O la lasciò procedere in una pratica che alcuni sentirono come una vocazione verso i figli dell’Alleanza eterna, e altri come una implementazione di quel diritto d’asilo che dopo la guerra sarebbe stato invocato da chi fece fuggire i criminali di guerra. È possibile – anche se gli archivi non sono sempre il luogo in cui si trovano le confessioni – che abbia davvero pensato che il ritrarsi dalla pubblica protesta fosse un modo per permettere l’azione di chi, a rischio della vita, nascose anziché denunciare, fece fuggire anziché vendere, protesse anziché assassinare gli ebrei. E se varie autorità politiche di un Israele supportato dall’Urss gli fecero credito di elogi sperticati all’indomani della guerra, è proprio perché temevano con ottime ragioni che il papa di Roma potesse scivolare di nuovo a una distanza che i superstiti radunati sulla Terra dei padri ricor davano quanto era stata pericolosa: perché evocatrice di quell’antisemitismo profondo e religioso, che oggi è di moda chiamare “antigiudaismo”, come se fosse una mezza virtù e non un peccato.
Con l’apertura degli archivi vaticani cadranno tifoserie e caricature. Le nuove carte richiederanno gli strumenti propri del lavoro storico. Non ci sarà per definizione l’analogo della “pistola fumante” dei gialli: perché la storia non è un giallo. Non ci sarà il pezzo di carta che farà vincere la squadra del “papa di Hitler” o del “papa che salvò gli ebrei”: perché questo documento non esiste. La complessità del governo pontificio, insomma, può aver conservato in qualche faldone giudizi illuminanti o capaci di antedatare ipotesi di lavoro suggestive: ma il processo di acquisizione di una verità storica ha cadenze diverse dallo scoop giornalistico. Una questione storiografica interessante riguarda ciò che Pacelli vede e ciò che non vede. Infatti Pio XII, come tanti, non riuscì ad individuare la specificità della Shoah dentro la grande catastrofe della guerra. Non riuscì a distinguerla nemmeno nella razzia del ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, e nella persecuzione di tutti gli altri ebrei venduti da italiani alle polizie fascista e nazista. Il moralista potrà fare su questo varie considerazioni. Ma allo storico interessa capire perché il Papa si comporta come tanti e tanti si comportano come il Papa.
Saranno le nuove carte d’archivio a permetterci di capire la posizione del pontefice e della sua corte in passaggi storici cruciali. Si pensi al momento in cui gli Alleati (che il pontefice non poteva che considerare come quattro nemici, essendo l’Urss comunista, la Francia laica, l’Inghilterra scismatica e gli Usa protestanti…) diventano padroni di una Europa in cui egli sogna di veder rinascere la cristianità. O si pensi alla Costituente italiana, dove i “professorini” spalleggiati da Dell’Acqua e da Montini riescono ad ottenere un beneplacito alla Costituzione che non ha quei tratti confessionali e autoritari che i gesuiti di Civiltà Cattolica volevano. O ancora si pensi ai grandi atti del magistero di Pio XII e alla repressione della nouvelle théologie che colpirà le intelligenze più profonde della Chiesa degli anni Cinquanta (Congar, Chenu, de Lubac, ecc.) e avrà un impatto tale da impedire la pubblicazione della tesi di un giovane e sconosciuto sacerdote come Joseph Ratzinger.
Ed è forse in quella zona postbellica dell’archivio che si potranno trovare anche spezzoni importanti per capire ciò che Pacelli non capì del tentato genocidio antiebraico. Si potrà comprendere perché la macchina vaticana, col suo consenso, pensi di disporre la restituzione al gran rabbinato di Israele dei bambini ebrei rimasti orfani e salvati in Francia da istituzioni e famiglie cattoliche. E si potrà capire la sua posizione su Israele e quei primi israeliani del 1948, di cui Pacelli prevedeva la sconfitta e la cacciata per mano araba, quando a guerra finita era altro che doveva inquietare.