di Paolo Franchi
La cosa non ha quasi fatto notizia, e già questo è un segno dei tempi. Un segretario generale della Cgil che annuncia come la cosa più naturale di questo mondo la sua decisione di non votare per il partito ultra maggioritario del centrosinistra, a memoria d’uomo non si ricorda. Tanto meno si ricorda un segretario generale della Cgil che pronostichi per il prossimo futuro la nascita di un nuovo partito della sinistra. Limitandosi a mettere in chiaro che a promuoverlo non deve essere «in modo improprio» il sindacato, come vorrebbe Maurizio Landini, ma, «nel modo più naturale», la politica. È vero, non si era mai visto nemmeno uno come Matteo Renzi, che da subito ha messo la Cgil sul banco degli imputati, rappresentandola come l’incarnazione di tutti i conservatorismi. Ma le parole di Susanna Camusso dovrebbero suonare lo stesso come una svolta di proporzioni difficilmente calcolabili. Invece niente. O quasi.
Curiosa coincidenza. La Camusso aveva da poco finito di sorseggiare il suo caffè in Corso Italia con il direttore del Foglio quando la minoranza del Pd si è sentita dire a muso duro da Renzi che il tempo delle discussioni e delle mediazioni è scaduto, sull’Italicum e non solo. È in primo luogo a questa minoranza, se le parole hanno un senso, che la Camusso sembra rivolgersi, perché diano battaglia: che senso ha mandar giù un boccone amarissimo in nome dell’unità del partito, se il partito in questione non è più il loro? Da qui alle elezioni politiche potrebbe e dovrebbe succedere «qualcosa di importante» a sinistra: fate che ciò avvenga, e potrete contare, se non sull’appoggio aperto della Cgil, che non è e non vuole diventare una forza politica, su qualcosa di più della sua simpatia. Appena tre mesi fa, quando la polemica con Renzi già si trascinava da un pezzo, il segretario generale era, almeno in pubblico, di diverso avviso. Il Pd, nonostante tutto, restava «un grande partito di centrosinistra». E, quanto a un’eventuale scissione, meglio non parlarne: «Di formazioni piccole ne abbiamo già troppe». Può darsi che a farle cambiare idea abbia concorso, oltre alla concorrenza da sinistra di Landini, una più chiara percezione dei cambiamenti di fondo (una «mutazione genetica», torna a dire la Bindi) introdotti da Renzi nel Pd, sempre meno «amalgama mal riuscito» di post comunisti e post democristiani di sinistra, sempre più partito di «un uomo solo al comando» (nel tempo che fu, forse si sarebbe parlato, come ne parlò nel Psi Riccardo Lombardi a proposito di Bettino Craxi, di Führerprinzip ). Quale prospettiva può avere in un partito siffatto una minoranza, qualsiasi minoranza, se non risolversi a decidere tra mangiare la minestra (almeno sino a quando, e non sarà in eterno, le verrà comunque distribuita) o saltare, con tutti i rischi del caso, la finestra?
Se il ragionamento è questo, una sua coerenza interna, lo si condivida o meno, la ha. I problemi, però, cominciano proprio qui. Il principale è, si capisce, quello di stabilire quale consistenza potrebbe avere una Linke all’italiana. Ma, anche a volergliene generosamente attribuire una pari, o addirittura superiore, a quella della Linke tedesca, e a voler lasciare da parte la questione (cruciale) del sistema elettorale dentro cui dovrebbe dare la sua battaglia, resterebbe ancora da stabilire chi potrebbe darle vita. «Nel modo più naturale, la politica», dice la Camusso. Vero, o almeno parzialmente vero, nel mondo di ieri (Rifondazione comunista ai tempi della «svolta» di Achille Occhetto) o dell’altro ieri (il Psiup ai tempi dell’ingresso dei socialisti al governo). Ma oggi, chi dovrebbe provvedere, una parte degli oppositori di Renzi nel Pd, Sel, i resti di Rifondazione? E, se provvedessero, quanti degli elettori della sinistra vecchia e nuova, che ci sono e non sono neanche pochi, piuttosto che dare un voto di testimonianza all’ennesimo partitino costruito mettendo insieme pezzi di ceto politico sconfitto, preferirebbero astenersi? La «coalizione sociale» di Landini probabilmente non andrà da nessuna parte, ma, con tutta la sua vera o presunta astrattezza, sembra, a paragone, un progetto realistico.
Di tutto questo hanno amara contezza gran parte delle minoranze del Pd. Ma meglio di loro lo sa Renzi, il figlio del tempo della post politica e forse pure della post democrazia che però sembra possedere, quasi per istinto, una delle virtù più antiche, e smarrite, dei leader: quella conoscenza delle debolezze degli avversari che ti consente (quasi) sempre di metterli in scacco perché ne hai intuito in anticipo le (prevedibili) mosse. È un’arma potente. Non è detto che stavolta gli basti. Ma certo gli dà un aiuto sostanziale.