È il dicembre del 1913 e a Firenze, in via Cavour, si possono visitare due mostre. La prima, alla libreria Gonnelli, è quella futurista di La cerba . Da qualche mese la rivista partorita dal vorticoso ingegno di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, va all’assalto di ogni possibile cielo borghese, conservatore e accademico, inanellando sfilze di provocazioni fatte apposta per turbare i ben pensanti timorati di Dio. E adesso la sfida è un tumulto di esplosioni creative: forme e colori. In un locale a due passi da Gonnelli, sono esposte le opere del diciottenne Ottone Rosai, un tipo alto, bruno, dinoccolato e conosciuto nel giro degli artisti come una «testa calda». Lo sanno tutti: studiava all’Istituto d’Arti Decorative, ha risposto male a un prof. ed è stato espulso. Dopodiché, sempre a causa del suo caratteraccio, lo hanno buttato fuori anche dal Regio Istituto di Belle Arti. Un tipo del genere garba un sacco ai sovversivi dell’avanguardia, che gli vanno a far visita, gli fanno i complimenti e gli dicono: unisciti a noi. In particolare Soffici — un talento che va a caccia di talenti, e generosamente li promuove — guarda con interesse i quadri di questo figlio del popolo (il babbo di Ottone viene da una stirpe di intagliatori e falegnami) così attaccato alle immagini del suo mondo: vie e case della Firenze più umile, botteghe, osterie, cieli e cipressi, rappresentati con una limpidezza cruda ed essenziale.
Il trentacinquenne Soffici- che viene da una famiglia benestante ed è tutto azzimato, a differenza del proletario Sironi decisamente male in arnese- potrebbe darsi delle arie: è stato a Parigi, ha respirato gli umori artistici più effervescenti, ha incontrato Max Jacob, Pablo Picasso, Guillaume Apollinaire, ha fatto conoscere in Italia geni spericolati come il «veggente» Rimbaud, ha «inventato» le riviste fiorentine insieme a Papini e Prezzolini, è noto e stimato come pittore, critico d’arte, polemista. E anche narratore visto che nel 1911, ha pubblicato Lemmonio Boreo , un romanzo picaresco che Gobetti definirà «l’Iliade del fascismo». Adesso, poi, è uno degli animatori di Lacerba : tra l’altro, è stato lui a trovare il titolo ed è lui a disegnare il frontespizio. Ma a Soffici non interessa atteggiarsi a maestro: vuol bene a Rosai, artista rivoluzionario ma non immemore di radici ed eredità. Così — e ben lo evidenzia la mostra Soffici e Rosai. Realismo sintetico e colpi di realtà , aperta dal 7 ottobre al Museo Soffici di Poggio a Caiano — Ardengo e Ottone, così ardentemente innovativi e provocatori, saranno compagni di viaggio nella riscoperta della memoria e dell’identità. E cioè di un paesaggio che è insieme, territorio dello spirito e visione del mondo. Più armonica in Soffici, sempre più «classica», più sofferta in Rosai, innamorato del turbinoso Medioevo? Senza dubbio, ma con qualcosa di forte in comune: una forma secca, schietta e sobria.
Soffici e Rosai, nei dipinti e nei disegni in esposizione, raccontano corpi e cuori della nostra terra, dipingono oggetti che sono emozioni, rappresentano la vita senza artifici intellettuali, con gli archetipi che balzano fuori dalla natura. Se ci mettiamo, poi, a scavare nell’esistenza dei due artisti, continuiamo a trovarli «insieme». Insieme nella Grande Guerra che entrambi vedono — e vivono — come occasione di cambiamento rivoluzionario. Perché l’ufficiale Soffici — che scrive diari «sul campo» come Kobilek e La ritirata del Friuli — e il soldato Rosai — che combatte nei reparti di assalto degli Arditi — «sentono» che gli umili fanti che hanno vissuto tra fango, sangue e pidocchi, meritano «un’altra Italia». A darle potente linfa vitale saranno Mussolini e le sue Camicie Nere? I due amici ci credono appassionatamente. Ma non ottusamente. E si ritrovano insieme sulle colonne del Sel vaggio a battersi per una rivoluzione nazionale e popolare che colga l’appello delle «province» — in prima linea, ovviamente, quelle toscane — contro la Roma ministeriale e truffaldina che spinge il Duce a ogni sorta di compromesso con la «vecchia Italia».
Poi, mentre Soffici celebra la patria e l’ordine nel «ritorno al reale», Rosai dà voce al suo estremismo dalle colonne del Bargello — il settimanale delle federazione fascista fiorentina, diretto da Alessandro Pavolini — e soprattutto da quelle dell’Uni versale , il foglio di battaglie antiborghesi, anticlericali e anticapitaliste fondato dall’ex- anarchico Berto Ricci. «Fascisti rossi», al pari degli amici Vasco Pratolini ed Elio Vittorini? Ottone, dopo l’8 settembre, ne busca da un gruppo di antifascisti (picchiano non solo lo squadrista ma l’uomo che ama gli uomini: il pittore, pur sposato, era notoriamente omosessuale), poi, nel ’44, si avvicina alla Resistenza. E la sua casa di via de’ Benci offre rifugio a diversi compagni in difficoltà, compreso il «gappista» Bruno Fanciullacci che va da lui dopo aver ammazzato Giovanni Gentile.
Ardengo, invece, resta fascista fino all’ultimo, aderisce a Salò, collabora al foglio repubblichino Italia e Civiltà (che tra le sue firme ebbe quella di un giovanissimo Spadolini) e per qualche tempo viene internato per collaborazionismo. Destini diversi, a lungo sodali, poi avversi? È la crucialità del Novecento e, più che mai, dei suoi «anni ruggenti».
- Martedì 3 Ottobre, 2017
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