La «sindrome tragica» nel destino dell’Occidente

Nell’occasione del centenario della morte di Max Weber, uno dei più grandi intellettuali del Novecento, autore di grandi classici come L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905) o La politica come professione (1919), stroncato da quella influenza spagnola che tanto assomiglia alla pandemia che stiamo vivendo, diventa fondamentale mettere a confronto diverse categorie della teoria weberiana con le emergenze e le sfide presenti nella società contemporanea. Misurare il nostro mondo profondamente in crisi e, allo stesso tempo, in trasformazione, con quel mondo di inizio Novecento che, attraverso i passaggi cruciali della Grande guerra, delle rivoluzioni che ne seguirono in Germania e in Russia e dell’epidemia, era altrettanto in cambiamento.

CONSCI, IN PARTENZA, di una differenza fondamentale: se il dramma del 1920 poteva comunque giovarsi di una prospettiva di trasformazione e di rigenerazione come quella rappresentata dal mito e dalla pratica della Rivoluzione d’Ottobre – cioè della forza fondamentale dell’idea di progresso, pur con tutte le sue aberrazioni – il 2020 si presenta con uno slancio tragico; poiché noi viviamo in un orizzonte che non è solo post-apocalittico ma ormai post-progressista.
È forse per questo che Max Weber, che nella «sindrome» tragica scorgeva il destino stesso dell’Occidente come il declino della libertà in favore del dominio di apparati e poteri impersonali, è oggi percepito come un contemporaneo. Forse molto di più di come non lo fosse nel suo tempo, per molti versi ancora alle prese con una certa innocenza – da lì a poco presto e drammaticamente perduta – della modernità.
Ma il senso del tragico come impossibilità di aspirare ad un mondo migliore, ad un più alto grado di emancipazione e di giustizia, non è l’unico lato che l’opera weberiana offre alla nostra contemporaneità.

È A PARTIRE dagli anni Ottanta che, grazie fra l’altro anche al lavoro pionieristico di Bendix e di molti altri, sono emersi, nell’interpretazione degli studi di Max Weber, nuovi nuclei tematici centrali: il processo di razionalizzazione e lo sviluppo capitalistico all’interno dei quali hanno avuto origine, in modo inatteso e non deliberatamente progettato, il mondo occidentale così come la modernità.
Razionalizzazione vuol dire essenzialmente passaggio a forme sempre più perfetto di organizzazione, produzione e modi di guardare al mondo, dal punto di vista dell’efficienza e dell’efficacia. I due valori che rendono culturalmente possibile il capitalismo. Lungo questa strada, Weber ha individuato molte delle tensioni irrisolte che riconosciamo nella nostra epoca come il ruolo centrale dell’immaginario – e sulla sua canalizzazione nel consumismo – o il formarsi di una «gabbia di gabbie», attraverso le mille istituzioni burocratiche e i vincoli tecnico-politici che si formano, in cui l’individuo è consegnato a un dilemma nel quale «potere» e «interessi» sfuggono alle categorie di una politica che l’economia globalizzata e le forme della sua comunicazione, hanno svincolato dall’ancoraggio ai conflitti e ai movimenti sociali, come fu nel Novecento.

È PROPRIO L’INCERTEZZA degli effetti che tutto questo porta con sé, e che l’evento inaudito e inatteso della pandemia ha a sua volta accentuato, come suggerisce Alessandro Cavalli in una recente intervista, a farci comprendere, con Weber, che il futuro non è deterministicamente scontato: quale futuro si realizzerà dipende dai nuovi processi sociali e politici che si riusciranno ad innescare.
Dalla capacità di trasformare i vincoli in opportunità. Anche per tali motivi, molte domande da cui origina la ricerca weberiana possono essere anche le nostre domande e il senso di apertura che comunque pervade le sue risposte – anche quando in esse la dimensione tragica ritorna con forza – può ispirare ancora oggi la nostra ricerca. Scientifica e pratico-politico nonostante spesso Max Weber, attraverso una lettura semplificatoria dei suoi contributi metodologici, venga accostato ad una sin troppo rigida divisione tra «giudizi di fatto» e «giudizi di valore».