Si fa chiamare Franco e ha lavorato per anni in albergo in Italia. Sarà per questo o forse per l’esperienza dei suoi sessant’anni ma gestisce il suo ruolo di concierge di hotel nel cuore di Hamra con grande padronanza e scioltezza. Il lavoro è a zero di questi tempi ma l’idea è che la sappia lunga. Si capisce da come parla con i tassisti inoperosi fuori l’hotel. Un po’ come il Libano, ne ha viste di tutte i colori.  Il flusso di gente a Beirut è a fisarmonica: ci sono fasi in cui sembra una qualunque città europea; altri in cui incombe il tuono sordo della rovina: che sia la guerra, la pandemia o un attentato, il cuore pulsante del Libano vive in bilico per abitudine. La tragedia al porto dell’agosto 2020 e una crisi economica progressiva hanno inciso molto sullo spirito collettivo di un popolo già abituato ad oscillazioni estreme in tempi brevi.  Pensandoci bene però, niente di nuovo; il Libano non potrebbe essere che così: tutto c’è, tutto si può perdere. Franco è serafico, come tutti a Beirut. Fatalista come chiunque viva in una capitale bella, godibile e per tradizione occidentale ma per destino incastrata in una polveriera. Dice di votare Hezbollah, il Partito di Dio, di averlo sempre fatto. La frase stride un po’ coi suoi occhi azzurri, visibili appena in una testa abbronzata e canuta. La parola Hezbollah ha un suono forte e ricorda sempre barbe lunghe e turbanti neri ma in realtà si è sviluppata come partito politico e il suo ruolo in Libano a livello istituzionale è considerato per questo. L’iconografia occidentale, frutto spesso di ignoranza, a Beirut è del tutto relativa.

Eppure qualcosa nell’aria c’è. Non è la paura della guerra, che da queste parti bussa sempre alla porta. Ci sono ombre nuove che si allungano tra i cedri, basta scavare un po’. In un Paese più piccolo dell’Abruzzo le voci che vengono da fuori fanno più rumore.  Non ci vuole molto a capire. Da quando la Turchia è più vicina l’eco nell’intera regione è percepita in modo diverso. Gli ottomani hanno sempre flirtato poco con la causa araba, anzi, per lungo tempo ne sono stati gli aguzzini. Ne sapeva qualcosa Lawrence d’Arabia, testimone del tramonto turco e di una libertà araba rimasta monca.  La Turchia che è nata allora, laica e moderna, sotto questo profilo non ha cambiato il passo. Da metà ‘900 ha stretto con Israele sotto l’egida di una convenientissima benedizione USA lasciando il rapporto con il mondo arabo non molto diverso da quello che era a inizio secolo.  Erdogan ha cambiato le cose. Cavalcando La Fratellanza musulmana, ha sbilanciato gli assetti fornendo una grande ombrello islamico a chi vuole “combattere il dominio sionista”. Di religioso c’è poco e c’è poco pure di personale contro lo Stato ebraico. All’ambizioso presidente turco interessa il potere e le moschee sono solo uno strumento per il revanscismo a tutto tondo da lui interpretato.  È stato proprio lui nel settembre 2020 a patrocinare l’incontro tra il leader di Hamas Ismail Haniyeh e il segretario di Hezbollah Nasrallah. Il pallino fisso è chiaro: far avvicinare quanto più possibile i movimenti più rappresentativi della lotta contro Israele per diventare leader indiscusso del riscatto palestinese e per esteso di una rivincita islamica su scala globale.

Il summit seguiva il cosiddetto Accordo di Abramo di agosto, con cui il Presidente Trump garantiva l’inizio delle relazioni diplomatiche fra Emirati Arabi Uniti e Israele: un colpo durissimo per la compattezza del mondo arabo e per la causa palestinese in genere.  Ben oltre le intenzioni di Erdogan, le divisioni ideologiche fra Hamas e Hezbollah rimangono però molto forti. Lo ribadiva anche Mahumd Al Zahhar, leader storico di Hamas in un’intervista di qualche anno fa (Limes febbraio 2013), lasciando intendere che l’appartenenza di Hamas al mondo sunnita e di Hezbollah a quello sciita fosse la cartina tornasole di una diversa idea della guerra in Siria e degli equilibri in Medio Oriente in genere. in altri termini, fatta salva la causa palestinese e specificamente l’odio per Israele, le possibilità che il Movimento di resistenza palestinese e il Partito di Dio possano camminare braccetto, ad oggi, è pura fantapolitica.  I libanesi lo sanno e non hanno troppa paura. Se ce l’hanno ci sanno convivere. Al massimo sono nervosi. Lo dice pure il concierge Franco che con i tassisti palestinesi frutto della diaspora ci lavora e ci parla.  S’indigna, condivide, s’infervora. Sulla questione palestinese, come con ogni arabo, è difficile un confronto sereno. Lo dimostra la mappa del Medio Oriente che campeggia dietro al desk della reception dell’hotel. È la carta del Libano e oltre la frontiera sud c’è scritto Palestina. Israele non risulta. Ciononostante sembra rassegnato e a tratti infastidito, come se tutto ciò che la cronaca riporta fosse un perenne cattivo presagio. L’inizio di qualcosa che non porterà nulla di buono se non sofferenza proprio al popolo libanese. Rappresenta in fondo il pensiero trasversale di un’intera nazione, divisa in tutto ma unita da un comune sentire: la stanchezza.

Ogni volta che a Tel Aviv suona l’antiaerea, Beirut del resto si prepara. La percezione che nel Libano si ha dei guai nella Striscia di Gaza, partigianerie a parte, è sempre la stessa: solidarietà totale ai fratelli palestinesi per carità, ma pagare sempre per le scelte degli altri no. Niente sintetizza meglio le divisioni del fronte anti Israele e la convinzione di ogni fazione di avere sempre la formula giusta per “liberare la Palestina dal giogo sionista”. Niente di meglio per interpretare la diplomazia panislamica del presidente Erdogan come un disegno strumentale, capace di intendere queste differenze e al tempo stesso cavalcarle. Ad Hamra, anima di Beirut ovest, il discorso finisce nel nulla, tra una passeggiata lungo la Corniche e un succo di melograno, qui sempre di stagione.  Il disincanto libanese sulla politica si esprime tutta nelle vie squadrate e ricche della zona teoricamente islamica e votata al benessere, tra i grattacieli di Manara, l’università americana e il jogging lungo il mare.  Lo spettro è che ai razzi di Gaza si uniscano quelli di gruppi infiltrati nel sud del Libano per quella presa a tenaglia su Israele che popola tutti i sogni irredentisti arabi. Impossibile non pensare a Hezbollah, anima sciita libanese e costola strutturale di una società complessa.

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“Israele è il male, ma non è così che la Palestina sarà libera…” quasi a giustificare l’inerzia dei gruppi sciiti, mai coordinati col fronte di Hamas. Franco ha le idee chiare e il messaggio è inequivocabile. Di tutto ci sarebbe bisogno ora in Libano, tranne che di un’ondata massiccia di F 16 con la stella di David. Mentre da Gaza partono razzi stavolta non solo su Ascalona e le città meridionali dello Stato ebraico ma addirittura oltre Tel Aviv, da nord tutto tace. Al di là di qualche provocazione, da Tiro in giù, oltre la linea blu che porta a Israele, non si muove foglia. Proprio da dove nel 2006 Hezbollah fece mostra delle sue rinnovate capacità militari, nessuno si muove. L’unico vero e temibile nemico di Israele, l’Iran, si limita a fornire le tecniche balistiche ad Hamas, ma di coinvolgimenti sul campo su larga scala non se ne parla. La comune lotta contro Israele è scritta col sangue, ma sul piano operativo, ognuno per sé e Allah per tutti. Nel Libano ogni cosa è anche il suo contrario. La contraddizione è l’equilibrio costante in cui vive il Paese dei cedri per metà cristiano e per metà altro, dove esistono mille confini e mille modi per scavalcarli.  I razzi dalla striscia continuano e la risposta della IAF è ogni volta più dura. Le tv arabe non usano mezzi termini e la rabbia verso Israele in Libano cresce. La voglia di evitare altre bombe però, vale più di ogni altra cosa.

Continua…

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