Tra meno di venti giorni, domenica 25 gennaio, la Grecia andrà anticipatamente alle urne per eleggere il nuovo Parlamento. Le unanimi previsioni della vigilia danno come vincitore Syriza, il partito della sinistra europea il cui leader Alexis Tsipras ha annunciato che, se sarà lui a guidare il prossimo governo, chiederà di rinegoziare, cioè di cancellare una parte rilevante del debito estero del suo Paese.
In un suo articolo significativamente intitolato «Non processate solo i debitori» ( Corriere, 5 gennaio), Lucrezia Reichlin ha già scritto che «la visione che prevarrà su come affrontare la crisi greca segnerà il futuro di tutti, non solo quello di Atene». Ha ragione.
Ma in agenda, appena tre giorni prima del voto greco, c’è un altro appuntamento il cui esito è destinato a influire in modo decisivo sull’oggi e sul domani dell’Europa. L’invito ad «allacciarsi le cinture di sicurezza a gennaio» espresso dal presidente del Consiglio Renzi non vale solo per i parlamentari del Partito democratico.
Il prossimo 22 gennaio, a Francoforte, Mario Draghi presiederà una riunione del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, la prima dell’anno dedicata alla politica monetaria. Insieme ai suoi ventiquattro colleghi, Draghi dovrà decidere se procedere o no a un massiccio acquisto di titoli pubblici dei Paesi dell’euro.
L’obiettivo dichiarato dell’operazione — nota come quantitative easing , in sigla QE — è quello di invertire la rotta dell’andamento dei prezzi, pericolosamente indirizzata verso la deflazione, cioè sotto la linea dello zero, com’è successo in dicembre, per la prima volta dopo cinque anni.
È assai probabile, per non dire di più, che Jens Weidmann, il governatore tedesco, si opponga all’intervento e, non da solo, voti contro.
Mario Draghi ha, tuttavia, già più volte dichiarato di essere pronto ad agire anche contro il parere di una eventuale minoranza del Consiglio direttivo. E in un’intervista del 2 gennaio scorso, rilasciata non a caso al quotidiano tedesco di economia e finanza Handelsblatt , ripetuto il suo rispetto del mandato affidato alla Banca centrale europea e degli obblighi che da questo derivano (tanto che il suo intervistatore ha rilevato quanto questo suonasse «molto prussiano per un italiano»), ha precisato che lo staff della Banca e tutti i comitati del sistema delle banche centrali hanno già ricevuto istruzioni per «preparare concrete misure».
Riuscirà, se varato, l’intervento della Bce a risollevare l’economia europea? Molti economisti dubitano che esso da solo possa bastare. E lo stesso Draghi ha più volte e con forza ribadito la necessità che anche i governi facciano la loro parte.
Quali che ne possano essere gli effetti, l’eventuale, e auspicato, «passo in avanti» della Bce segnerà comunque una tappa importante nella storia e nella costruzione dell’Unione Europea.
Perché si sarà imposta una visione che considera l’economia europea nel suo insieme e non più come un semplice aggregato di economie nazionali.
Perché, come conseguenza di questa più vasta visione, si sarà affermata una diagnosi dei mali dell’economia europea che vede la deflazione e l’assenza di crescita come il più immediato e maggiore pericolo della stagione che stiamo vivendo.
Perché con riferimento all’euro, la moneta unica, elemento cardine della sovranità che i Paesi europei hanno deliberato di condividere tra loro, sarà stato concretamente adottato un nuovo modello di governo basato sul principio di maggioranza e non più sull’unanimità e sul diritto di veto.
Se così sarà stato, verrà rimarcato il paradosso della decisione a maggior tasso politico venuta dall’istituzione europea più autonoma dalla politica.