di Dario Di Vico
C’ è più moralità in un tornio che in un certificato di una banca d’affari. Il copyright è di Giulio Tremonti, ma Anton i o C a l a b r ò , d i r i g e n te d e l gruppo Pirelli e scrittore, l’ha preso in prestito per titolare un l i b ro , L a m o ra l e d e l t o r n i o (Egea), che è un lungo viaggio nella «sapienza manifatturiera» di un’Italia che, dopo sette anni di recessione, l’autore ci descrive come provata, ma non stremata.
C a l a b r ò , c h e p u r e a ve v a scritto tempo fa Orgoglio industriale (Mondadori, 2009), per motivare la sua scelta di campo, non fa nessuna concessione alla nostalgia, non si rifugia nel fascino letterario di parole controtempo, basa la sua fiducia nella supremazia del tornio («macchina utensile tipica dei processi produttivi metalmeccanici», annota) su una ricognizione minuziosa di ciò che sta avvenendo. E davanti al lettore, quasi in presa diretta, convoca idealmente decine di testimoni, chiamati con le loro parole a confermare o contraddire le sue intuizioni.
L’avversario, o se preferite l’errore da non ripetere, è la dittatura della finanza, la carta che prevale sulle macchine, i pochi che dettano le condizioni ai tanti. La speranza, forse non esplicitata fino in fondo, è che la caduta della finanza che trascina con sé l’economia reale resti un episodio e non una condizione destinata a ripetersi nel futuro.
Ma le macchine utensili, oltre ad essere eticamente superiori, reggono al test dell’efficacia capitalistica? Gli economisti industriali usano l’indice delle vendite dei torni come metro dell’andamento degli investimenti, noi possiamo spingerci a pensare che le fabbriche anticipino un secondo rinascimento? Calabrò propende per una risposta positiva e tutto il libro, in fondo, è un grande sforzo per argomentare questa visione. L’ultimo capitolo è addirittura dedicato a Beethoven in fabbrica, alla civiltà delle macchine e alla musica in fabbrica, all’idea di legare i concerti, le sinfonie, le sonate ai luoghi di lavoro per mettere in connes- sione cultura alta e cultura po- polare. Quanto agli stabilimenti veri e propri, Calabrò li chiama «neofabbriche» e li descrive così: «Un insieme originale di produzione, progettazione, linee di robot controllate da operai specializzati in camice bianco, digital manufacturing e stampanti 3D, lavoratori collegati con le università su progetti di ricerca comuni, servizi sofisticati integrati alla produ- zione». La neofabbrica appare un insieme di relazioni che a loro volta legano saperi diversi, da quelli scientifici a quelli delle scienze umane ed è anche un luogo nel quale il capitalismo ritrova la sua legittimazione piena e recupera il rapporto con gli uomini e le donne in carne ed ossa. Da qui le istantanee di Calabrò sugli esperimenti di matrice tedesca chiamati Industry 4.0, i focus sui processi di rilocalizzazione delle imprese che tornano in Italia e sulle nuove catene della fornitura. E sulla vitalità dei distretti. «Un’interessante conferma — riporta l’autore — emerge da un’indagine della Fondazione Edison e di Confindustria Bergamo sulle province manifatturiere europee e cioè su 53 province sulle 1.300 di tutta la Ue. Sono quasi tutte italiane e tedesche. E se si guarda alle prime 23, in testa ci sono Brescia e Bergamo, poi Wolfsburg». Ma, pur rappresentando noi ancora la second a p ote n z a m a n i f a t t u r i e r a d’Europa, non possiamo illuderci di continuare a presidiare tutte le produzioni, «la strada è puntare sulla qualità e i fattori determinanti sono design, efficienza, sicurezza, alte prestaz i o n i , va l e n ze s i m b o l i c h e , avanguardia tecnologica». Il capitalismo che punta sulle neo-fabbriche non è però chiamato anch’esso a rinunciare alla rendita? L’autore non si sottrae al quesito, anzi. «Il capitalismo relazionale — scrive — è finalmente arrivato al suo irreversibile tramonto e nel mondo dell’industria privata è t e m p o d i t r a s f o r m a z i o n i .
Guardando all’organizzazione secondo le dinamiche di mercato». E allora per tenere la strada della competizione globale oggi servono meno holding e più puntuale attenzione al core business, organizzazioni snelle e sviluppo delle attività tipiche. L’addio ai patti di sindacato completa la metamorfosi descritta da Calabrò, si chiude la stagione degli accordi corporativi tra pochi azionisti e si sceglie di navigare in mare aperto, di rispondere al mercato in tutto e per tutto.
Che il tornio possa vincere davvero?
C a l a b r ò , c h e p u r e a ve v a scritto tempo fa Orgoglio industriale (Mondadori, 2009), per motivare la sua scelta di campo, non fa nessuna concessione alla nostalgia, non si rifugia nel fascino letterario di parole controtempo, basa la sua fiducia nella supremazia del tornio («macchina utensile tipica dei processi produttivi metalmeccanici», annota) su una ricognizione minuziosa di ciò che sta avvenendo. E davanti al lettore, quasi in presa diretta, convoca idealmente decine di testimoni, chiamati con le loro parole a confermare o contraddire le sue intuizioni.
L’avversario, o se preferite l’errore da non ripetere, è la dittatura della finanza, la carta che prevale sulle macchine, i pochi che dettano le condizioni ai tanti. La speranza, forse non esplicitata fino in fondo, è che la caduta della finanza che trascina con sé l’economia reale resti un episodio e non una condizione destinata a ripetersi nel futuro.
Ma le macchine utensili, oltre ad essere eticamente superiori, reggono al test dell’efficacia capitalistica? Gli economisti industriali usano l’indice delle vendite dei torni come metro dell’andamento degli investimenti, noi possiamo spingerci a pensare che le fabbriche anticipino un secondo rinascimento? Calabrò propende per una risposta positiva e tutto il libro, in fondo, è un grande sforzo per argomentare questa visione. L’ultimo capitolo è addirittura dedicato a Beethoven in fabbrica, alla civiltà delle macchine e alla musica in fabbrica, all’idea di legare i concerti, le sinfonie, le sonate ai luoghi di lavoro per mettere in connes- sione cultura alta e cultura po- polare. Quanto agli stabilimenti veri e propri, Calabrò li chiama «neofabbriche» e li descrive così: «Un insieme originale di produzione, progettazione, linee di robot controllate da operai specializzati in camice bianco, digital manufacturing e stampanti 3D, lavoratori collegati con le università su progetti di ricerca comuni, servizi sofisticati integrati alla produ- zione». La neofabbrica appare un insieme di relazioni che a loro volta legano saperi diversi, da quelli scientifici a quelli delle scienze umane ed è anche un luogo nel quale il capitalismo ritrova la sua legittimazione piena e recupera il rapporto con gli uomini e le donne in carne ed ossa. Da qui le istantanee di Calabrò sugli esperimenti di matrice tedesca chiamati Industry 4.0, i focus sui processi di rilocalizzazione delle imprese che tornano in Italia e sulle nuove catene della fornitura. E sulla vitalità dei distretti. «Un’interessante conferma — riporta l’autore — emerge da un’indagine della Fondazione Edison e di Confindustria Bergamo sulle province manifatturiere europee e cioè su 53 province sulle 1.300 di tutta la Ue. Sono quasi tutte italiane e tedesche. E se si guarda alle prime 23, in testa ci sono Brescia e Bergamo, poi Wolfsburg». Ma, pur rappresentando noi ancora la second a p ote n z a m a n i f a t t u r i e r a d’Europa, non possiamo illuderci di continuare a presidiare tutte le produzioni, «la strada è puntare sulla qualità e i fattori determinanti sono design, efficienza, sicurezza, alte prestaz i o n i , va l e n ze s i m b o l i c h e , avanguardia tecnologica». Il capitalismo che punta sulle neo-fabbriche non è però chiamato anch’esso a rinunciare alla rendita? L’autore non si sottrae al quesito, anzi. «Il capitalismo relazionale — scrive — è finalmente arrivato al suo irreversibile tramonto e nel mondo dell’industria privata è t e m p o d i t r a s f o r m a z i o n i .
Guardando all’organizzazione secondo le dinamiche di mercato». E allora per tenere la strada della competizione globale oggi servono meno holding e più puntuale attenzione al core business, organizzazioni snelle e sviluppo delle attività tipiche. L’addio ai patti di sindacato completa la metamorfosi descritta da Calabrò, si chiude la stagione degli accordi corporativi tra pochi azionisti e si sceglie di navigare in mare aperto, di rispondere al mercato in tutto e per tutto.
Che il tornio possa vincere davvero?