di Massimo Franco
Più si avvicina la scadenza del Quirinale, più diventa vistosa l’assenza di qualsiasi «regista» in grado di organizzare una maggioranza e di approdare a una candidatura. Nelle ultime settimane la coalizione di governo si è talmente slabbrata da proiettare sul voto per il capo dello Stato all’inizio del 2022 lo spettro di un Parlamento condannato a dividersi, egemonizzato dai franchi tiratori. Probabilmente, all’idea di una tregua sulla manovra finanziaria, lanciata dal segretario del Pd Enrico Letta, se ne aggiungeranno presto altre: in aggiunta o in competizione. I consensi ricevuti in via di principio dovranno fare i conti con strategie e interessi diversi, e spesso agli antipodi, tra e dentro schieramenti e partiti. Vale per Lega, Forza Italia, i renziani e lo stesso Pd. E diventa un vero rebus quando ci si accosta ai grillini. L’ipotesi di blindare Mario Draghi «oltre il 2023», riproposta da Silvio Berlusconi, appare suggestiva e insieme nebulosa fino alla virtualità. Il problema, infatti, non è fino a quando affidarsi al premier come garante del Paese per mercati finanziari e Europa. Semmai, peserà la posizione istituzionale in grado di assicurare continuità e forza alla sua azione e alle strutture messe in piedi per gestire gli aiuti della Commissione Ue. E già su questo le certezze vacillano. Ritenere che l’orizzonte dell’esecutivo e della sua maggioranza atipica possa arrivare fino al termine della legislatura dipende dall’esito delle votazioni per il presidente della Repubblica. E pensare che Draghi rimanga a Palazzo Chigi dopo le Politiche del 2023 è ancora di più una scommessa al buio. In realtà, il tema delle prossime settimane si svilupperà sulla capacità del premier di rassicurare chi, in Parlamento, teme che un suo passaggio al Quirinale porti diritto alle urne. E, qualora il successore di Sergio Mattarella fosse un’altra persona, sulle probabilità che il governo sopravviva comunque. È una preoccupazione diffusa. E acuta nella forza di maggioranza relativa: quel Movimento 5 Stelle che sa di avere dilapidato in tre anni gran parte del suo terzo di consensi. L’influenza del ministro degli Esteri grillino, Luigi Di Maio, su buona parte dei suoi gruppi parlamentari nasce dal loro istinto di sopravvivenza; e dalla diffidenza nei confronti di un Draghi eletto al Quirinale. È una mancanza di fiducia che Di Maio non smette di manifestare privatamente. E che viene camuffata, tra i grillini e tra i molti che invocano un po’ pelosamente «Draghi per sempre» come capo del governo, dall’esigenza di non interrompere il suo lavoro: fingendo di non sapere che il pericolo di una crisi esiste comunque, dopo un voto, quello di gennaio, che ridisegnerà gli equilibri del Paese.