Youssef Hassan Holgado
Filippo Poltronieri
Nei vicoli di Amsterdam e Bruxelles è facile imbattersi in pusher di tutte le nazionalità. Primi avamposti sulla via della droga, le due capitali europee scontano la vicinanza ai porti di Rotterdam e Anversa, porte di accesso privilegiate per le sostanze stupefacenti che approdano nel continente. In questa babele dello spaccio però, gli albanesi sembrano scomparsi dalle strade. Per chi investiga si tratta di un segnale chiaro. I clan originari del Paese delle aquile hanno fatto un salto di qualità.
«Si tratta di uomini d’affari dall’aspetto insospettabile», spiega a IrpiMedia Fatjona Mejdini, coordinatrice della sezione albanese della Global Initiative Against Transnational Organized Crime, echeggiando quanto anni fa già si diceva del crimine organizzato italiano. Seduta dietro una scrivania in un piccolo appartamento, adattato a sede locale dell’organizzazione, nel centro di Tirana, ripercorre i passaggi dell’ascesa degli albanesi nel pantheon della criminalità. «Hanno cominciato come autisti dei trafficanti italiani, lavoravano come manovalanza nei porti di Amsterdam e Rotterdam per recuperare i carichi in arrivo, altri portavano la cocaina in giro per l’Europa. Poi sono cambiate delle cose e hanno capito che potevano coprire da soli l’intera filiera, accreditandosi direttamente presso i fornitori sudamericani».
In pochi anni sono riusciti a mettere in piedi un sistema che non ha niente da invidiare a quelli delle organizzazioni storicamente più strutturate, stando a quanto emerso dalle più recenti indagini, come quella denominata Los Blancos, coordinata dalla procura di Firenze e condotta insieme a Europol e ad altre procure internazionali.
Una gita in Svizzera
Un’utilitaria guidata da un uomo sui 50 anni viene fermata per un controllo di polizia alle porte di Firenze. Sul sedile di fianco al guidatore una donna anziana. Gli uomini della Squadra mobile vanno a colpo sicuro. Sanno che la strana coppia nasconde qualcosa, che quel viaggio in Svizzera, il 18 maggio 2015, non è una semplice vacanza. Dopo una breve perquisizione gli agenti trovano ciò che cercano: 9 kg di eroina nascosti dentro dei borselli. Poco dopo fermano un’altra macchina con a bordo due trafficanti albanesi, per conto dei quali i due corrieri italiani stavano trasportando l’eroina.
I due corrieri della droga sono due insospettabili fiorentini, incensurati. Per 2.500 euro a testa, pochi mesi prima, avevano portato un chilo di cocaina dalla cittadina tedesca di Düsseldorf a Firenze, ingaggiati dal trafficante albanese Florenc Ceni. «Un chilo di banane da portare oltre frontiera» diceva “la vecchia” – soprannominata così dai criminali albanesi – già intercettata all’epoca dalle forze di polizia italiane. Oltre che dall’insolita squadra di corrieri e dalla reiterazione del reato, l’attenzione degli investigatori veniva attirata dalla facilità dei clan albanesi di spostare ingenti quantitativi di stupefacente grazie a contatti diretti con connazionali residenti in Olanda e Belgio. A questo punto delle indagini però, mai avrebbero immaginato di essere vicini a sgominare la più grande organizzazione criminale, tutta albanese, mai conosciuta prima d’ora.
Kompania Bello
Kompania Bello ha rifornito per anni l’Europa di tonnellate di cocaina. Una piovra con 14 tentacoli, tanti quante sono le cellule del cartello identificate, estesi in dieci Paesi, dagli Emirati Arabi Uniti all’Ecuador, passando per l’Italia e l’Albania. Un originale sindacato internazionale dello spaccio sul quale è stata parzialmente fatta luce nel settembre 2020 con la maxioperazione Los Blancos, conclusa con trenta ordinanze di custodia cautelare e 84 trafficanti arrestati. A partire da Firenze le indagini hanno portato a scoprire un coordinamento militarmente organizzato, capace di importare quintali di polvere bianca e di raggiungere piazze come Torino, Roma, Rimini, Padova, Verona e altre province italiane.
I clan albanesi gestivano autonomamente la distribuzione al dettaglio ma erano altresì capaci di rifornire gruppi autonomi e storicamente presenti sulle piazze, come i clan mafiosi della Madonnella di Bari, che acquistavano esclusivamente dal gruppo albanese Memia – afferente all’organizzazione di Kompania Bello – o il clan di camorra dei Contini, il cui principale canale di approvvigionamento era quello dei fratelli Memetaj – anch’essi associati al cartello transnazionale. A capo dell’intero sodalizio una vecchia conoscenza delle procure di mezza Europa, assurta nel 2011 alle cronache nazionali italiane per una rocambolesca fuga dal carcere di Voghera: il narcotrafficante albanese Dritan Rexhepi, detenuto in Ecuador dal 2014.
Rexhepi muove i primi passi nel mondo criminale come assassino su commissione. Nel 2013, quando era già latitante, viene infatti condannato per due omicidi compiuti nel 1998 in Albania, quando aveva appena 18 anni. Iscritto alla facoltà di legge, lascia il Paese poco dopo i 20 anni per darsi alla latitanza e alle rapine a mano armata, in Belgio. Incastrato nel 2008 da un tribunale italiano per traffico di cocaina, è evaso nel 2011. Negli anni successivi, fino all’arresto del 2014, in un’operazione che portò al sequestro di 278 chili di cocaina, Rexhepi ha conosciuto e stretto stabili rapporti con narcotrafficanti dei cartelli più influenti, ponendo le basi per la gestione di Kompania Bello.
Da dietro le sbarre, l’uomo è riuscito infatti a dirigere le operazioni, grazie alla corruzione del personale penitenziario. Dall’acquisto di ingenti quantità di stupefacente in Sud America al trasporto via mare con approdo nei porti di Rotterdam e Anversa, Rexhepi ha esercitato un enorme potere. In Sud America riusciva a comprare la cocaina più pura per 4.400 dollari al chilo. Appena arrivava nei porti europei – dove sbarcava agevolmente grazie ai contatti con trafficanti connazionali come il già noto Denis Matoshi – la polvere bianca era quotata oltre 20 mila dollari al chilo. I fornitori sudamericani avevano una tale fiducia in Rexhepi da adottare il sistema di spedizione 50 e 50: la metà del carico era a nome del trafficante albanese, con il timbro “Bello” o “RS6” – timbri di riconoscimento dell’organizzazione – l’altra metà era di proprietà dei latini.
Non solo. Parte della cocaina, riconducibile a Rexhepi o ai suoi sodali albanesi, era spesso ottenuta a credito. Inoltre una percentuale della droga nominalmente dei sudamericani veniva affidata al clan albanese per la distribuzione in Europa, a dimostrazione della capillarità ed efficienza dell’organizzazione messa in piedi dalle cellule albanesi operanti nel Vecchio Continente.
Dritan Rexhepi
Kompania Bello lavorava come una federazione del crimine, basata su una precisa suddivisione di compiti e proventi, coadiuvata da un sofisticato sistema di comunicazione criptata (tramite BlackBerry) e coordinata da Rexhepi. Da una parte i grossisti della sostanza, individuati dagli investigatori nel Cartel del Norte del Valle colombiano, alleato del Cartel de Sinaloa messicano. I contatti erano garantiti da un gruppo di narcotrafficanti ecuadoregni capeggiati da Cesar Emilio Montenegro Castillo, più amichevolmente Don Monti, e da tale Antrax, di nome Diomar, non individuato dagli inquirenti.
I carichi, anche superiori alla tonnellata per spedizione, partivano da Guayaquil e arrivavano in Europa dove, ad attenderli, c’era l’altra parte dell’organizzazione, la ben rodata filiera della distribuzione. Gli importatori, a capo di proprie organizzazioni, si erano comunque dotati di una rete di servizi in comune e relazioni di mutuo soccorso e informazione. La filiera comprendeva aiuti economici per le famiglie dei carcerati e assistenza per la riscossione crediti. Ognuno si occupava poi della distribuzione di una percentuale della droga giunta in Europa grazie alla collaborazione di cellule sparse per tutto il continente. L’esistenza di un simile consorzio, operante tra le due sponde dell’Atlantico, ha certamente contribuito ad accendere i riflettori sul crimine organizzato di origine albanese. Ma il crescente protagonismo dei broker albanesi nel mercato mondiale, agli occhi degli investigatori, non è una novità.
Negli ultimi dieci anni una scia di sangue ha macchiato le strade di Quito e di altre città dell’Ecuador, una serie di omicidi le cui tracce portano direttamente a Tirana. Dall’assassinio del giornalista investigativo Fausto Valdiviezo, per il quale i sospetti degli inquirenti si sono concentrati sul narcotrafficante albanese Adriatik Tresa, all’omicidio di Tresa stesso, prelevato da un gruppo di finti poliziotti e trovato senza vita nel novembre 2020, i fatti di sangue che coinvolgono cittadini di nazionalità albanese si sono moltiplicati negli ultimi anni nel Paese sudamericano. Il crescente protagonismo delle gang albanesi nei traffici transatlantici di cocaina trova conferma anche nel Vecchio Continente. Tra il 2018 e il 2020, secondo dati dell’Europol, 266 arrestati in Europa per traffico di cocaina erano albanesi, la nazionalità più rappresentata davanti ai 257 brasiliani e ai 168 colombiani.
Nel 2020 i sequestri di cocaina nei porti di Rotterdam ed Anversa hanno fatto registrare un record, 65,5 tonnellate – la punta dell’iceberg secondo gli inquirenti. E il trend non sembra subire inversione, visto che a febbraio 2021 le autorità doganali hanno bloccato un cargo con 27 tonnellate di polvere bianca. In Italia i sequestri sono quadruplicati (13,4 tonnellate nel 2020), rispetto al 2018. I traffici non risentono dunque né della pandemia né del lockdown e la maxioperazione che a ottobre 2021 ha portato a oltre cento perquisizioni nelle città di Bruxelles, Liegi e Anversa ha mostrato ancora una volta come clan albanesi, ‘ndrangheta e narcos colombiani riescano a collaborare in sinergia, lavorando la sostanza appena scaricata in laboratori localizzati nei pressi della capitale belga.
La multinazionale del crimine
«Kompania Bello è un caso unico per ora», sostiene Fabian Zhilla, «possiamo presumere che esistano altre realtà come questa, ma non si tratta di strutture organizzate con un obiettivo finale omogeneo, ma di una convergenza di interessi, il cui collante è basato sulla provenienza dalle stesse città e sulla comunanza di lingua». «La struttura tipica delle gang albanesi si basa sui cerchi concentrici», spiega Fatjona Mejdini. «Nel primo cerchio troviamo due, tre persone, spesso unite da un legame di sangue: fratelli, cugini, cognati. Al secondo troviamo persone provenienti dalla stessa città o area geografica del Paese, al terzo albanesi di altre città o comunque persone che parlano la lingua». Una miriade di piccole organizzazioni che collaborano a livello internazionale e regolano i conti nei patrii confini, per evitare di rischiare qualcosa nei paesi europei dove conducono i propri affari. «La madrepatria viene usata dai gruppi che operano all’estero come bacino di reclutamento e come luogo di risoluzione delle dispute».
Le oltre 40 organizzazioni censite nel sopracitato report del 2016 hanno cambiato affari, si sono ristrutturate ma sono ancora attive.
Specializzazioni e business spesso dipendono da ragioni storiche e geografiche. Elbasan, al confine con la Macedonia, è stata storicamente interessata dal traffico di eroina proveniente dalla Turchia e negli ultimi mesi è saltata spesso agli onori delle cronache per una serie di omicidi commessi in pubblica piazza. Scutari, al confine con il Montenegro, ha una lunga tradizione di famiglie criminali coinvolte nel contrabbando e nel traffico di esseri umani alla frontiera. Negli ultimi anni l’area è diventata una delle principali zone di produzione di marijuana, dopo la chiusura delle coltivazioni a cielo aperto di Lazarat nel 2014.
Welcome to Tirana
La capitale dell’Albania, oggi, è un cantiere a cielo aperto. Nuove costruzioni dal design avveniristico sorgono in ogni spazio della città, i bordi delle strade sono tappezzati di cartelli della Tirana che sarà. «Un boom edilizio frutto di un afflusso di denaro senza precedenti favorito dalle regole del Paese», commenta Zef Preci, direttore dell’Albanian Center for Economic Research (ACER), «ma i prezzi degli immobili – dai 1.000 ai 3.000 euro al metro quadro – non corrispondono al potere di acquisto reale dei cittadini albanesi». In effetti negli ultimi anni il governo di Tirana ha fatto in modo che gli investimenti nel Paese risultassero sempre più interessanti: tasse a zero per le aziende con utili fino a 130 mila euro, fino al 15% per chi guadagnasse qualcosa (o tantissimo) in più. Inoltre, IVA allo 0% per fatturati inferiori agli 80 mila euro, tasse zero nel settore turistico alberghiero per gli hotel a 4 e 5 stelle, per chi opera nell’agroalimentare e nell’information technology.
Il tutto con una manodopera qualificata e con i costi più bassi di tutta l’Europa orientale. Lo stipendio medio in Albania, infatti, è di poco superiore ai 313 euro al mese. Una sperequazione che fa sì che negli ultimi 5 anni ancora quasi il 10% dei cittadini albanesi abbia optato per l’emigrazione. Una stima del riciclaggio dei proventi di traffici illeciti in Albania è pressoché impossibile. Ma alcuni indicatori mostrano chiaramente quali siano le tendenze in atto.
«La moneta albanese è sovrastimata, per mantenere questa stabilità nel tasso di cambio con l’euro l’economia dovrebbe crescere del 12% all’anno», spiega ancora Preci. «Questi sono gli effetti dell’afflusso di capitali criminali, soprattutto nel settore delle costruzioni, favoriti dalle politiche di attrazione degli investimenti del Governo e dall’ampliamento dei poteri in materia in favore dei sindaci: adesso ci sono molti meno passaggi per ottenere un permesso per edificare».
Secondo dati in possesso della Guardia di Finanza italiana il volume di trasferimenti non tracciati dall’Albania all’Italia sarebbe raddoppiato lo scorso anno. «Vero anche che in Italia ci sono 50 mila aziende con titolare albanese, che possono aver aumentato il ritmo delle rimesse, in un periodo di forte crisi economica», commenta Preci. «Però anche in una nostra indagine simile, realizzata sul volume di trasferimenti dal Regno Unito all’Albania, attraverso canali legali come Western Union, emergeva come il flusso fosse triplicato in un solo anno. Il problema reale, qua in Albania, non è l’assenza di regole ma la loro concreta implementazione. Ci sono troppe vie di fuga, se non colpiamo le mafie nel potere economico non riusciremo mai a sconfiggerle».
La commistione di interessi tra politica e organizzazioni criminali è tema di dibattito quotidiano in Albania. L’ex ministro dell’Interno (2013-2017) del governo socialista di Edi Rama, Saimir Tahiri, è stato processato per traffico internazionale di stupefacenti, sospettato dalla polizia italiana di far parte di un consorzio criminale operante tra le due coste del mar Adriatico.
Condannato “solo” per abuso di ufficio dalla Procura albanese per i reati gravi, Tahiri è stato inizialmente estromesso dal partito e interdetto dai pubblici uffici, ma la corte suprema di Tirana ha disposto un riesame del suo caso a causa di alcuni errori procedurali nel processo di due anni fa.
Il nome del sindaco di Tirana, Erion Veliaj, compare invece nelle carte dell’operazione della Procura di Catanzaro Basso Profilo. Nell’ambito di un’indagine che ha smantellato gli interessi di un clan di ‘ndrangheta interessato a investire in Albania, la municipalità di Tirana risulta un interlocutore amico, almeno stando alle intercettazioni che riguardano Saverio e Tommaso Brutto, entrambi ex consiglieri comunali in Calabria finiti ai domiciliari a inizio anno prima che una sentenza della Cassazione annullasse l’ordinanza di custodia cautelare.
Le influenze del mondo criminale sulla politica hanno spinto l’Albania a una profonda riforma che dovrebbe garantire maggiore autonomia e operatività giudiziaria. Su spinta dell’Unione europea – Il Paese nutre l’ambizione di entrare a farne parte – e degli Stati Uniti, lo sforzo riformistico ha prodotto nel 2019 una nuova procura speciale anticorruzione, chiamata SPAK, Struktura e Posaçme Anti-Korrupsion. I giudici e investigatori della SPAK sono dovuti passare attraverso le forche caudine del “vetting”, un processo di rivalutazione della carriera di ogni singolo giudice sulla base di titoli, proprietà e relazioni intrattenute in passato.
Il vetting è stato ideato nel 2016 per porre un freno alla corruzione dilagante nel sistema giudiziario albanese e vi sono stati sottoposti tutti gli 800 magistrati in servizio all’epoca. Questi esami hanno provocato un terremoto nella procure del piccolo Stato adriatico paralizzando il sistema giudiziario. La Corte di Cassazione è rimasta infatti per due anni con un solo giudice mentre quella Costituzionale ha subito un prolungato periodo di stop, sempre a causa di carenza di organico.
Tra gli illustri caduti al processo di riesame anche il presidente della Corte Suprema, Xhezair Zaganjori. «La SPAK è diventata realmente operativa nel settembre 2021, dopo un processo di valutazione molto approfondito», spiega Zhilla, «adesso è un organismo completamente indipendente che riporta solo al parlamento. I primi segnali sono positivi, dei primi casi mandati alla Corte il 99% ha avuto un seguito giudiziario». Un primo passo per arginare il potere di organizzazioni criminali che hanno ampiamente varcato i confini nazionali.