- Tutte le simulazioni sul costo di sanzioni energetiche sono però incomplete, non considerano davvero lo scenario alternativo.
- Quali sono i costi di un conflitto che continua e si inasprisce? Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, l’autorità indipendente sui conti pubblici, la guerra è già costata all’Italia nel 2022 circa un punto percentuale di Pil, quindi tra i 18 e i 19 miliardi di euro.
- Questo scenario fosco cambierà anche l’offerta politica: fra sei mesi le tante Marine Le Pen e Giorgia Meloni d’Europa avranno molto malcontento in cui cercare consensi.
Passate le elezioni francesi, questa settimana l’Unione europea dovrebbe discutere seriamente dell’embargo al petrolio russo, l’unica arma di guerra economica davvero efficace rimasta prima di passare a quello del gas.
I cauti, a cominciare dai tedeschi, dicono che non possiamo permettercelo e che, in fondo, con la Russia di Vladimir Putin bisogna pur convivere, nonostante quello che sta succedendo in Ucraina.
Tutte le simulazioni sul costo di sanzioni energetiche sono però incomplete, non considerano davvero lo scenario alternativo.
Quali sono i costi di un conflitto che continua e si inasprisce? Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, l’autorità indipendente sui conti pubblici, la guerra è già costata all’Italia nel 2022 circa un punto percentuale di Pil, quindi tra i 18 e i 19 miliardi di euro, e se dovesse continuare di altri tre mesi, il costo aumenterebbe di 1,6 punti di Pil nel biennio 2022-2023.
Altri 30 miliardi abbondanti: e visto che prima dell’invasione eravamo appena tornati a livello del 2019, questo significa che l’Italia ha già innestato la retromarcia della recessione.
Per scaramanzia e troppa incertezza, l’Upb non si avventura a stimare cosa succederebbe se la guerra continuasse non un trimestre, ma sei mesi o un anno.
La situazione è già ora critica: a guardare i mercati, si vede che gli operatori stimano un ritorno alla normalità dell’inflazione (oggi tra il 6 e l’8 per cento tra Ue e Stati Uniti) nei prossimi due-tre anni, un atto di fiducia nella capacità delle banche centrali di gestire la situazione.
Ma i prezzi possono scendere anche per una recessione ben più forte della frenata che un aumento dei tassi come quello avviato dalla Federal Reserve dovrà comunque comportare.
I timori per il futuro e l’incertezza riducono la domanda di investimenti e al contempo li rendono più costosi, le famiglie perdono potere d’acquisto perché i rincari dell’energia sottraggono loro risorse che non possono andare in altri consumi, mentre si accumulano i segnali inquietanti che indicano bolle prossime a scoppiare (molti titoli tecnologici, come Netflix, non possono continuare a crescere come durante la pandemia, lo stesso vale per i prezzi delle case).
In questo contesto così delicato, le banche centrali devono scegliere tra lasciar correre un’inflazione generata in gran parte dall’energia (ma non solo) oppure tirare il freno a mano dell’economia in un momento in cui la politica anti-crisi del dopo pandemia ancora non ha iniziato a produrre i suoi effetti, ma ha già costi certi in termini di emissioni di debito.
Questo scenario fosco cambierà anche l’offerta politica: fra sei mesi le tante Marine Le Pen e Giorgia Meloni d’Europa avranno molto malcontento in cui cercare consensi.