di Dario Divico
Gli italiani non credono nella ripresa imminente. A dircelo è un sondaggio sfornato proprio ieri dalla Ixè di Roberto Weber in base al quale il 63% dei nostri concittadini non vede i segnali di un’inversione di tendenza e continua a pensare che il tunnel della crisi sia ancora lungo. I risultati del sondaggio, in prima battuta, sembrano contraddittori rispetto a quanto sostengono molti tra economisti e banchieri che in ripetute occasioni hanno illustrato una tesi più rosa. Ma mentre il giudizio degli addetti ai lavori si basa sui vantaggi che cominciano a riflettersi sull’economia per alcune variabili macroeconomiche (prezzo petrolio, svalutazione euro ed effetti del quantitative easing ), gli italiani si basano sull’osservazione concreta dell’ambiente attorno a sé e ne ricavano per l’appunto che la ripresa non è ripartita.
Tra i tanti fattori che influenzano l’opinione pubblica i sondaggisti dicono che ce ne sono due prevalenti: l’andamento delle tasse e le dinamiche del mercato del lavoro. Proprio osservando entrambi questi indicatori gli italiani ne ricavano una sensazione pessimistica e il caso ha voluto che le ultime due rilevazioni dell’Istat abbiano finito per confermarla, quella sul tasso di disoccupazione di febbraio 2015 diffusa nei giorni scorsi e quella sulla pressione fiscale 2014 emessa ieri. In entrambe le occasioni il dato Istat avalla lo scetticismo degli italiani e in qualche modo smentisce l’ottimismo ostentato dal governo, come nel caso del ministro Giuliano Poletti che aveva parlato di un milione di posti di lavoro in arrivo il giorno prima dei dati negativi di febbraio.
La scaramanzia, se non la conoscenza dei fatti, dovrebbe consigliare più prudenza e comunque è chiaro che indulgere a messaggi eccessivamente «rotondi» non favorisce, in questa fase, il rapporto con i cittadini.
In particolare, per quanto riguarda il mercato del lavoro, il governo dovrebbe sapere che gli effetti del combinato disposto tra ripresa e Jobs act non saranno immediati: Pietro Nenni non trovò mai la stanza dei bottoni semplicemente perché non esiste e comunque l’economia ha sue dinamiche che non sono riconducibili al puro comando politico.
Non va dimenticato, ad esempio, che l’aumento della produzione industriale, laddove si verifica, comporta nel breve il riassorbimento della cassa integrazione e non crea nuovi posti di lavoro. Sappiamo inoltre che la decontribuzione favorirà la conversione di contratti precari in contratti a tutele crescenti, ma non possiamo pensare di determinarne dall’alto tempi e quantità.
Se dal lavoro rivolgiamo poi l’attenzione alla pressione fiscale non possiamo non guardare con allarme al 43,5% su base annuale e al 50,3 nell’ultimo trimestre del 2014 comunicati ieri dall’Istat, che consolidano l’impressione che gli italiani hanno avuto sugli effetti perversi della somma di nuovi tributi locali, accise e Iva.
Il governo replica che gli 80 euro non vengono contabilizzati come taglio delle tasse, bensì come spesa sociale (e si spiega così il dato sull’aumento delle uscite per +0,8%), ma la sensazione che resta è una: tutta quell’operazione ha sicuramente dato a Renzi un dividendo politico (alle Europee) ma non ha prodotto lo stesso esito in campo economico. È mancata la capacità di gestirla in maniera fruttuosa, si è pensato più a cavalcare l’elemento politico-propagandistico che a curare la trasmissione di quel taglio ai consumi e all’economia reale. Governare è più difficile che tener botta a un intervistatore.
Dario Di Vico