Dialoghi Scienza, tecnica, filosofia e antifilosofia, ma anche una certa religione credono di poter spiegare il significato dell’esistenza. Un teologo cattolico (Giuliano Zanchi) e un attore di origini ebraiche (Gioele Dix) discutono del futuro delle fedi
Giulia Ziino
Un teologo e un uomo di teatro. Un sacerdote cattolico e un laico di origini ebraiche. Mondi diversi, ma la stessa tensione che li porta a interrogarsi e a cercare la risposta — mai definitiva — nella fede, e nelle Scritture. «Per chiunque — presto o tardi che sia — Dio è il problema. Persino per chi esclude categoricamente che esista»: la frase la rubiamo a Gioele Dix, attore e autore di teatro, oggi nella veste insolita di esegeta in La Bibbia ha (quasi) sempre ragione, appena tornato in libreria per Claudiana, ampliato, a dieci anni dalla prima edizione. Con lui, a confrontarsi sul problema, c’è don Giuliano Zanchi, teologo (Vita e Pensiero ha pubblicato ora il suo Rimessi in viaggio, riflessione sulla Chiesa, e il suo futuro, in un presente molto inquieto). Un uomo di fede e uno in cammino: ma oggi, nel «deserto secolare» che appare come il nostro orizzonte, per lo meno europeo, la religione è ancora la domanda? E può essere la risposta?
GIULIANO ZANCHI — Partirei da qui: continuare a parlare di Dio come una risposta acquisita è proprio il tipo di atteggiamento che la stessa cultura credente dovrebbe superare. L’idea che possa esserci un sapere che scioglie tutti gli enigmi e riempie tutti i vuoti è una delle ragioni per cui questa cultura fa fatica — per usare un eufemismo — a confrontarsi con la cultura contemporanea che, invece, lavora per rendere la realtà una questione: tutta la realtà, tanto più Dio che, per definizione, è un continuo interrogativo anche per chi crede. Spesso la cultura religiosa si è data come acquietamento delle domande per saturazione delle risposte senza accorgersi che, così facendo, rischia di diventare un narcotico delle coscienze. La Bibbia è popolata di gente che, quando incontra Dio, non solo non trova la pace, anzi è disorientata, cerca di svignarsela. Aver tolto questa connotazione problematica alla questione di Dio ha finito per renderla irrilevante nel suo essere sì irrisolvibile, ma anche inevitabile. Qui poi si potrebbe aprire un discorso molto ampio sul disegno metafisico che la cultura di oggi, subliminalmente, continua a proporre: scienza compresa, che dice di attenersi solo al dato, a ciò che si può spiegare, ma poi in realtà disegna la totalità. E questo disegno metafisico che non vede letteralmente altro ha come «surgelato» il concetto di Dio come questione: questo effettivamente mette in discussione il presente delle confessioni religiose tradizionali, ma non le sorti della religione che, invece, rinvigoriscono anche assumendo connotazioni ambivalenti, piene di penombre. Perché se a una questione non dai le parole, poi ognuno ci mette le sue.
GIOELE DIX — Mi lego subito a un punto: la Bibbia è piena di uomini spiazzati dall’arrivo di Dio nelle loro vite. Un Dio che, allora, si «sporcava le mani», scendeva a trattare con gli uomini, a dar loro dei segni. Oggi è diverso, non è detto che ci sia la chiamata: sei tu che devi citofonare e dire a Dio «ci sei?». Una citofonata, tra l’altro, a cui non c’è risposta. In più l’esigenza della chiamata non può arrivare da fuori: la razionalità non basta, ci vuole qualcosa che ti viene dalla pancia. Da bambino avevo due nonni molto diversi: quello paterno mi diceva «Dio ti guarda sempre»; l’altro, ateo e in chiaro conflitto con il nonno paterno con cui passavo più tempo, provocava lui attraverso me dicendomi «ringraziando Iddio, noi siamo atei». Se la prima frase mi preoccupava molto (non avevo capito che forse mio nonno intendeva Dio come la coscienza), l’altra mi faceva capire che anche per il nonno ateo esisteva un problema su Dio: la presenza o assenza di Dio è il tema, e non sono le risposte che contano, ma le domande. Oggi abbiamo la necessità di imparare a fare le domande giuste sapendo che non è detto ci sia una risposta, né che sia univoca o duri nel tempo.
Ma allora abbiamo smesso di farci domande? O è la fede che ha smesso di essere una risposta?
GIULIANO ZANCHI — Oggi, con i «saperi forti» che dettano l’agenda del nostro modo di ragionare e guardare la fede, si è imposta l’idea che ci sia un sapere in grado di esaurire il senso dell’esperienza umana. L’esistenza, invece, è sempre nel dettaglio, nella storia, ed è — rubo l’espressione a un teologo italiano, Pierangelo Sequeri — costantemente «esposta al sacro»: ogni volta che gli esseri umani sono esposti alle grandi esperienze della vita — nascere, morire, ma anche trovare lavoro —, a quelle cose per cui ne va di loro stessi, lì c’è il sacro, l’incondizionato che va oltre e lì c’è la possibilità di tenere vive le domande e si percepisce che il senso è sempre più grande del sapere. La nostra civiltà sta facendo l’equazione contraria quando afferma che esistono dei saperi che possono adeguare il senso. Lo fa la scienza, la tecnica, la filosofia, l’antifilosofia: qualsiasi tipo di sapere che abbia vocazione egemonica. Anche la stessa religione, e la Chiesa quando costruisce una dottrina che pretenda di esaurire il senso dell’esperienza religiosa: un atteggiamento che poi diventa anche un certo modo di stare nella società, di parlare agli uomini. Io sogno una cultura credente capace su certe cose di dire «questa esperienza è talmente complessa che non mi sento di dire a tutti i costi l’ultima parola, ma ti starò vicino mentre la affronti», sogno che i cristiani diventino capaci di trovarsi di fronte a casi in cui lo svincolo esistenziale è così forte che, come Mosè, ti togli i sandali davanti al roveto: sarebbe la maniera migliore per tenere viva in modo umano la densità della questione religiosa. Del resto anche quando Dio parla non pretende che la sua parola sia l’ultima, ma è quella che apre tutte le altre, non è mai un «inscatolare» le esperienze della vita, perché questo le condannerebbe a non poter essere vissute umanamente.
Eppure in passato accettavamo l’idea di una religione capace di risolvere tutto.
GIULIANO ZANCHI — Poteva esistere una religione che funzionava in questo modo perché c’era una cultura di fondo che funzionava in questo modo. L’aspetto positivo di quello che per altri versi porta disorientamento — quello che con le formule ormai classiche chiamiamo la «morte delle grandi narrazioni», la «decostruzione del senso» — è stato un avanzamento nel nostro modo di guardare la realtà: siamo usciti dall’idea infantile che possa esistere un sapere in grado di «tenere» il senso di tutta l’esperienza umana.
Una volta la pratica religiosa era parte integrante della vita, anche solo per consuetudine, perché non si poteva prescindervi…
GIOELE DIX — Parto ancora da un ricordo personale: il mio libro è dedicato a Renzo, un amico fraterno con cui sono cresciuto e che non c’è più, un cattolico praticante, ciellino della prima ora. Guardando lui mi sono reso conto dell’importanza della pratica religiosa, di come la fede debba essere qualcosa a cui dedichi tempo e energie. Mi piaceva che lui pregasse, e che lo facesse con quella precisione e frequenza. Ho sempre avuto una grande stima per quelli che praticano la religione, qualunque sia la loro fede di appartenenza, e che sul serio mettono la religione al centro della vita, senza però farla diventare qualcosa che esclude il resto (l’integralismo ha poco a che fare con la fede). E sono convinto del potere «edificante» della parola della Bibbia: la parola serve a costruire, a dare consapevolezza, a fare da stimolo. A volte è ostica, ma è interessante che lo sia: come quando si spiega qualcosa ai bambini, non è necessario che venga capito sempre tutto, poi crescendo saranno loro a mettere insieme i pezzi. La tradizione ebraica dei commenti alla Scrittura è uno spiegare in continuo movimento: ognuno, ogni rabbino ci mette del proprio. È come dire che non si prende la Parola per oro colato, ma ce la si fa colare addosso per vedere se è oro, se funziona per noi. Come mai Dio ha deciso di salvare gli ebrei e portarli nella Terra promessa e gli ha fatto fare tutto quel giro? Bastava prendere un navigatore e andare dritti, invece li ha fatti perdere nel deserto, li ha logorati nell’attesa al punto da smarrire la fede: è come dire «anche se ti garantisco che otterrai un risultato, devi capire che ottenerlo costa fatica, che dovrai metterti alla prova, essere pronto per la libertà».
Oggi non essere praticanti non fa più scandalo: l’abbandono della consuetudine può aver influito anche sull’abitudine a porsi grandi domande?
GIOELE DIX — Si pratica di meno? Meglio, perché quelli che lo fanno sono più motivati. E comunque non significa che si sia persa la necessità della religione: probabilmente sono venute meno anche molte ipocrisie e, anzi, forse proprio questo potrebbe essere uno stimolo per ripartire. Poi non mi lascerei neanche andare troppo alle generalizzazioni: se frequenti certi giri ti accorgi che c’è un grande interesse per la fede, una grande qualità. Mi riferisco soprattutto al mondo cattolico perché in Italia è predominante (e io che faccio parte di una minoranza me ne rendo conto): c’è molto fermento, in tanti si danno da fare, magari senza che gli altri lo sappiano. Ho un amico dentista, per esempio, che non mi dava mai appuntamento il lunedì, poi ho scoperto che quel giorno va a curare i denti dei clochard, e non ci rinuncia mai.
GIULIANO ZANCHI — La nostra epoca ha fatto spazio anche alla libertà di chi, pur non credendo, onora lo stesso la vita e questo può insegnare qualcosa anche a chi crede. Quello che secondo me è il più grande biblista del secondo Novecento, Paul Beauchamp — grande ma poco letto — scrivendo a proposito dei Salmi osservava che la voce che parla in quei libri è di qualcuno di solito sofferente, in profondo disagio se non addirittura in pericolo di morte, e che chiede il soccorso di Dio per questa vita. Perché quello è il suo orizzonte: Dio — pensa — lo incontro qui, in questo mondo e in questo tempo. Un credente dovrebbe imparare questo da chi, non credente, onora la vita e lo fa senza avere prospettive oltre quelle che si possono avere qui: l’idea di una giustizia che si compie oltre, in Paradiso, è una questione decisiva, ma può anche diventare facilmente un sedativo. Mi viene da dire, con una formuletta, che noi credenti non saremo mai presi sul serio quando parliamo delle cose ultime se non trattiamo seriamente quelle «penultime». Sul tema della pratica, poi, le fedi confessionali tradizionali, soprattutto i tre grandi monoteismi, sono state fortemente messe in discussione da questa transizione epocale. Ma la religione, la vita religiosa no: la pratica religiosa esiste ancora, ma è trasmigrata in altri contenitori — per la più parte insospettabili, che non si danno l’etichetta di «pratica sacrale». Penso al sistema dei consumi e all’industria della bellezza e dello spettacolo che gli fa da contenuto: secondo me oggi è quella l’area della pratica religiosa più diffusa, lì ci sono i nuovi riti, i nuovi santuari, le nuove feste comandate, i nuovi chierici. Quando si dice «chiese vuote e centri commerciali pieni» lo si riduce a un fatto moralistico, invece è una questione profondamente antropologica: lì si è trasferito il bisogno di sacralizzare la vita, di onorarla con una pratica religiosa o para-religiosa, di investirla di un feticcio talismanico che oggi non è più patrimonio delle religioni storiche. La gente non va più in chiesa o in sinagoga però, se la domenica guardi bene in un centro commerciale, capisci che lo ha sostituito con quello. E anche l’arte che è diventata la nuova laica devozione del citoyen sensible: oggi le grandi mostre e le processioni di gente in fila davanti a un quadro sono delle ostensioni, come quella della Sindone. Questo involucro sociale ha ereditato ciò che in passato veniva assicurato dalle religioni storiche.
È un impoverimento?
GIULIANO ZANCHI — Per certi aspetti sì: il più delle volte questo fenomeno occulta l’aspetto religioso inevitabile nell’esperienza umana nella sua portata di interrogativo dandogli un rivestimento ancora più pericoloso, estetico, seduttivo. È la traduzione pratica di quello che dice Nietzsche: la verità è brutta, abbiamo l’arte per sopravviverle. Se il senso ce lo costruiamo noi, già che ci siamo costruiamocelo bello.
Ogni anno, a Natale, in qualche scuola scatta qualche polemica sul presepe. Viviamo in una società multiculturale: la fede deve difendersi o aprirsi?
GIULIANO ZANCHI — Per l’esperienza che ho, penso che non sia una questione che si pongono i diretti interessati: chi frequenta scuole e parrocchie sa che ragazzi di Paesi e fedi diversi convivono molto pacificamente e trovano sempre il loro modo di condividere i simboli, di renderli non alternativi, ma complementari. I problemi nascono quando entra in gioco il punto di vista ideologizzato di qualcuno che prende a pretesto la realtà per adeguarla al suo sapere o quando l’interesse politico a creare disagio prende quell’unico episodio di criticità su mille per farne uno strumento di consenso. Pensavamo che il nostro futuro sarebbe stato il deserto secolare, un’Europa sostanzialmente libera dal «virus» della religione e, contro ogni aspettativa, oggi ci troviamo nel pieno di una società interreligiosa, nelle grandi città come nei piccoli centri: il nostro compito è affrontarla, non trasformarla in emergenza.
GIOELE DIX — Sono ottimista riguardo alla realtà: credo che sia più forte della rappresentazione che ce ne fanno quelli che don Zanchi ha chiamato «saperi forti», che poi più che forti sono muscolari, si impongono spesso solo per una questione di marketing. Le persone sono molto più vicine di quanto non si dica, serve però chi si «sporchi le mani», chi si metta a fare e non a chiacchierare: aprire centri, organizzare il torneo di boccette, curare i denti ai clochard… Serve questo. Il tema del presepe è fuorviante, è reso polemica da chi ha scopi ideologici esterni rispetto alle reali necessità delle persone. Certo, la scuola non deve fare il catechismo, quello se si vuole si fa fuori dalle classi, ma può essere uno strumento per raccontare ai ragazzi ciò che la religione significa. Su questo si potrebbe ancora fare tanto.
Fonte: La Lettura, https://www.corriere.it/la-lettura/