Gli anniversari, per quanto importanti nella cura della memoria collettiva, portano con sé un duplice rischio. Da un lato si tende a proiettare su eventi e figure passate le dinamiche del presente, cercando modelli possibili e risposte a esigenze attuali che finiscono per deformare il passato e i legami che lo vincolano al nostro oggi. Dall’altro si rischiano facili riduzionismi, che tendono a mitizzare singole figure in un processo di canonizzazione laica che costruisce santini estranei alla realtà storica.
La memoria di Giorgio La Pira, padre costituente, deputato, sottosegretario al ministero del lavoro e sindaco di Firenze, di cui il 5 novembre ricorrono i quarant’anni dalla morte, ha spesso corso il rischio di finire distorta fra questi due poli opposti, svuotata di ogni problematicità e soprattutto ridotta all’idea del sindaco santo circondato dall’amore della città. Si tratta di un’icona nella quale scoloriscono sia lo spessore religioso, culturale e politico dell’uomo La Pira, sia la profondità dei conflitti, interni ed esterni al contesto fiorentino, che attraversano la sua parabola politica. Ed è forse proprio guardando agli scontri con i diversi «nemici» di La Pira che è possibile cogliere alcuni tratti più caratteristici della sua vicenda umana e storica e coglierne il peso. Si tratta di un quadro che emerge dagli scritti stessi di La Pira, soprattutto dal suo ricchissimo epistolario indirizzato ai pontefici, ed edito negli anni scorsi, in cui si coglie il politico e il cristiano lucidamente cosciente del gioco, spesso spregiudicato, della politica e al tempo stesso fermo nelle proprie convinzioni.
A partire dal 1951, quando per la prima volta viene eletto sindaco di Firenze, La Pira si trova di fronte tre diversi generi di opposizione. Vi è in primo luogo l’opposizione «di sinistra», di quel Partito comunista a cui era stata tolta la guida di Palazzo Vecchio. È un’opposizione ferma, di carattere ideale e ideologico, che tuttavia non impedisce a La Pira di avere con i comunisti un confronto aperto e franco, che non preclude, nella coscienza dello iato politico e culturale, la possibilità di convergere su scelte che vanno in direzione del bene comune. Il confronto si gioca allora sul terreno dei programmi e degli interventi che portano il confronto su questioni, quella dei poveri, della tutela del lavoro e dei diritti, della costruzione della pace, che negli anni Cinquanta e Sessanta erano parte dell’impianto politico del Pci.
E tuttavia proprio la base dell’impostazione politica lapiriana, quel ritenere «sacri» il lavoro, il pane e la casa quale imprescindibili garanzie dei diritti fondamentali e dunque della promozione umana, diviene anche il punto di frizione con l’altra opposizione, ben più spregiudicata nella sua azione, che viene dalla destra economica e politica. Sono ben più che semplici critiche: è un blocco sociale, politico e culturale la cui voce passa in parte per La Nazione e soprattutto per giornali come Il Borghese . Questo «Sant’Uffizio laico», come lo definirà La Pira in una lettera dell’aprile del 1959 indirizzata a Giovanni XXIII, ha di mira sia le scelte economiche e sociali delle giunte fiorentine, che mettono in radicale discussione il liberismo che guida la politica di Confindustria, sia le iniziative di pace che guardano al superamento della logica dei blocchi tentando di «riportare» la Russia verso l’Europa.
Queste stesse iniziative sono le motivazioni che animano la terza opposizione a La Pira, tutta interna alla Chiesa, che passa per il Sant’Uffizio romano del cardinale Ottaviani, per una parte consistente dell’episcopato italiano e arriva fino alla curia fiorentina. Il 25 gennaio del 1959, lo stesso giorno in cui Giovanni XXIII annunciava il Concilio Vaticano II nella sagrestia della basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma, Ottaviani aveva etichettato La Pira e i sostenitori di Fanfani, come «comunistelli delle sacrestie». Il cardinale aveva di mira il progetto di centrosinistra che doveva associare il partito socialista alla maggioranza di governo e che proprio nella Firenze di La Pira doveva avere uno dei suoi esperimenti più rilevanti. Un giudizio, quello di Ottaviani, che tre anni dopo viene ripetuto da monsignor Parente, che del Sant’Uffizio era consultore e che giudica La Pira, Fanfani e Moro «traditori» per aver contribuito a costruire quella prospettiva politica.
La Pira vive questi passaggi con estrema consapevolezza, scrivendone ripetutamente a Giovanni XXIII e a Paolo VI. Il quadro che ne emerge è quello di una battaglia politica a tratti durissima, che si snoda per tutto il quindicennio che vede La Pira guidare la città. Un quindicennio nel quale non mancano crisi politiche che si riverberano sulle giunte e che sono esemplificate dal quadriennio (1957-1961) in cui la città è guidata dal commissario prefettizio Lorenzo Salazar, insediatosi dopo la crisi della seconda giunta lapiriana. Quello che vede protagonista La Pira è dunque uno scontro fra visioni della politica e della società alternative, nel quale la cifra della prospettiva del sindaco di Firenze è una lettura religiosa dell’opera della politica: circostanza che non significa riproporre un ruolo politico della Chiesa ma assumere l’importanza del fatto religioso nella storia e coglierne lo spessore umano. Questo porta a La Pira la consapevolezza dell’ora in cui vive, con un quadro politico internazionale che sembra senza via d’uscita, segnato dal succedersi di tante piccole crisi (Suez e Budapest nel 1956, Berlino e Cuba nel 1961, ancora Cuba nel 1962), di conflitti che attraversano la decolonizzazione in Africa e in Asia (è l’inizio della guerra del Vietnam). Un contesto nel quale sembra non esserci alternativa alla guerra fra i due blocchi, che in molti danno per inevitabile.
In Italia tutto questo alimenta le resistenze e i timori, anche interni alla Chiesa, di quanti vedono nella politica che si fa a Firenze un cedimento alle sinistre e il segno di un avanzamento politico e ideologico di un comunismo vincente. Di questo schema La Pira non solo coglie i limiti ma intuisce la distanza rispetto a linee di sviluppo profonde nella storia. Linee che nel Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, trovano uno snodo la cui portata supera i confini stessi della Chiesa. In quell’evento La Pira vede la prospettiva di una unione fra i cristiani che è segno di una unità del genere umano e dunque strumento per superare la logica del conflitto e guardare alla costruzione di un ordine globale di pace. Un dato che si salda a quello che la politica lapiriana ha tentato a Firenze con i tanto criticati convegni internazionali sul Mediterraneo, sulla pace o con i sindaci delle capitali del mondo. Una diplomazia fatta di cultura e di economia, di politica e dialogo, animata però da una lettura credente della vicenda umana.
La considerazione delle luci e delle ombre della vicenda politica della Firenze di quegli anni consente di cogliere le radici di quelle che sono alcune questioni aperte ancora oggi nella vita cittadina e non solo. L’idea che lo sguardo del credente possa e debba, con la sua lettura dell’umanità, alimentare la costruzione della pace, si ritrova nella diplomazia di papa Francesco e nel suo tentativo di delineare un orizzonte diverso nelle relazioni internazionali, dalla Siria all’Africa, dalla Colombia a Cuba fino alla Corea del Nord. In Bergoglio si ritrova la convinzione che il compito della politica non sia quello di assecondare gli eventi ma di guidarli e cercare quella pluralità di vie percorribili in cui i popoli trovano alternative al conflitto e alla guerra. Anche la linea di Francesco, come quella di La Pira, non è priva di nemici. Chi si oppone ad un governo effettivo della crisi migratoria o a soluzioni politiche delle tensioni in tante aree del mondo lo fa in nome del timore di veder erodere status sociali, economici e politici consolidati e giudicati irrinunciabili. A testimonianza di dialettiche storiche che continuano a segnare il nostro tempo.