Quando qualcuno ha davanti, in termini più o meno esatti, il tempo della propria morte – perché programmato da sé, o perché scandito da malattie aritmetiche come il cancro – scopre, innanzitutto, tutto quello che resterà incompiuto. Libri non finiti, tasse non pagate, soluzioni perennemente rimandate per dilemmi irrisolti da anni. E poi si rende conto che le nostre pretese di completezza, noi società ossessivo-compulsiva, sono irrilevanti. Che non c’è nessun obiettivo da raggiungere, circoscritto fra inizio e fine. I Fremen di Dune risolvono il problema con la teoria del coltello: prendi un coltello, taglia ciò che è incompleto, ed ecco, dopo sarà completo. Djuna Barnes, ne La foresta della notte, parla del principe che, prima di salire sul patibolo, lascia il segno fra le pagine del libro: “l’uomo che vive nel suo miracolo”. Solo in questo spazio rovesciato fra l’assurdità del consueto e la normalità del miracolo un essere umano può dirsi davvero lucido.
Sembrano superficiali, quindi, alcune delle critiche emerse in risposta al grande successo popolare del referendum per la legalizzazione dell’eutanasia. La logica di fondo, espressa anche da Avvenire, è che “l’isolamento, la solitudine, l’angoscia e la disperazione” spingano il malato verso l’eutanasia. Ed è vero, certo, che l’uomo di fronte alla morte è fragilissimo: ma la morte è appunto questo, essere indifesi e indifendibili nonostante qualsiasi sforzo della medicina e della struttura sociale. Essere soli e disperati è proprio il modo in cui si muore, al netto della pantomima. Idealmente, la falce che recide i legami rivela la loro insufficienza: le parole non si adattano al contesto, fra tutte le esperienze quella del morire non sarà mai comune.
L’equivoco sta nell’idea che una morte naturale – cioè la morte sopravvenuta all’esaurimento dei nostri strumenti scientifici – sia anche una vita compiuta. Ma non è vero, perché pesa sul malato la contraddizione dionisiaca di Nietzsche. “Il dolore dice: passa oltre, ma tutto ciò che soffre vuole vivere”. Al di qua dell’eternità abbiamo fallito comunque, e quindi l’eutanasia è a tutti gli effetti una fra le cure palliative, che non servono a niente se non a passare oltre.
D’altra parte, è quasi un paradosso che ad esprimersi sulla morte sia lo strumento politico di massa per eccellenza, il referendum. La massa non sa niente della morte, e in qualche modo rappresenta il suo opposto, la vita eterna e addormentata – dice Caraco – di cui siamo partecipi sulla terra. L’utilizzo efficace dell’iniziativa popolare – c’è anche la legalizzazione della cannabis – arriva in un momento, soprattutto in Italia, di trionfo della massa. Dei rituali kitsch all’inizio della pandemia – le bandiere, i cori, gli angeli col camice – è rimasto un sottofondo paternalistico, fatto di continui appelli al dovere civico del vaccino.
Invocato dal Presidente del Consiglio, da quello della Repubblica, persino dal papa, questo dovere civico è uno strano concetto: qualcosa che gli altri, la massa, lo Stato ci chiedono ma possono imporre solo di sbieco. Il green pass universale è, ovviamente, una scaltra sciabolata che evade i rischi giuridici dell’obbligo vaccinale ma funziona più o meno allo stesso modo: in effetti, però, è il governo che appalta la coercizione alla società, cioè alla massa. C’è la normalità del vaccinato – che poi si sovrappone ad altre caratteristiche, intellettuali, politiche: diciamo che c’è una normalità del vivere nel nostro tempo, e chi resta fuori è subito riconoscibile, sorvegliato, sottoposto a un principio di visibilità. Tutto si snoda in una dimensione pre-giuridica, dove non arrivano le leggi arriva l’occhio della folla: Burioni descrive la dinamica splendidamente, in un guizzo letterario di burinaggine, quando paragona i non vaccinati alla gente che puzza.
Potrebbe sorprendere che il governo dei tecnocrati abbia cambiato etichetta al populismo – perché questo è – e lo spacci per virtù civica. La chiave del mistero si trova in quel capolavoro di sociologia orrorifica che è Massa e potere di Elias Canetti:
“I potenti oggi tremano in modo diverso per la propria vita, come se fossero uguali agli altri uomini. La struttura primordiale del potere, il suo cuore e il suo nucleo – la difesa del potere a spese di tutti gli altri – si è spinta all’assurdo e giace in frantumi. Il potere è più grande ma è anche più fuggevole che mai. Tutti sopravvivranno o nessuno”.
Canetti parlava di armi atomiche, ma il principio vale anche per le pandemie e le catastrofi ecologiche: le dimensioni della massa sono tali da inglobare ormai anche i potenti; il male che può fare al mondo, con la sua stazza da leviatano, riguarda tutti. Questo strano tempo ci ha svelato nuove semantiche politiche: un populismo elitario, in contraddizione con se stesso, che distribuisce certificati di appartenenza al potere – il potere dei tecnici, degli scienziati, dei migliori. Al netto della burocrazia, sul piano psicologico, il green pass fa questo: dice che, simbolicamente, honoris causa, sei uno di loro. Chiudendo il cerchio, infine, i potenti sono davvero parte della massa perché vivono o muoiono insieme ad essa.
Massa e morte, dicevamo. Nella campagna per il diritto al morire – per quanto necessaria sia, prima ancora che giusta – c’è un nucleo semantico disturbante. Con l’eutanasia si estende la portata di un’igiene della vita che riguarda l’aborto, la disabilità, le malattie. Non solo medicalizzazione, ormai storia vecchia, ma un atteggiamento ecologista deciso a piantare i paletti di una riserva naturale dentro la quale, ma non fuori, la vita naturale si realizza. In una legge sta scritto quando io posso liberamente morire, e questo momento è lo stesso per tutti. Io posso parlare all’infinito della mia morte, ma non attingendo al lessico della massa: lì, le parole si trasformano in parole più semplici, univoche, e poi solo in numeri. Altro paradosso, perché il diritto a morire è soprattutto un diritto alla verità, in tutta la sua estensione verbale, fino a quel margine di parole incomunicabili con cui l’individuo dice a se stesso che morirà, che sta per morire. Tutto il resto del mondo continua a vivere e dunque non esiste, e anche le parole giuste si separano una volta per tutte da quelle sbagliate.
Di parole sbagliate se ne spargono troppe, oggi, nel dibattito fra pro-life e pro-choice. Non è una questione di vita e non è una questione di scelta. La morte è, solo, ciò che irrompe dal fondo, obbliga all’assoluto e dunque libera, il momento in cui siamo più lontani dalla massa, e dunque più umani:
“Il suo lavoro, il suo modo di vivere, la sua famiglia, i suoi interessi mondani e professionali, tutto poteva essere stato un errore. Cercò di difendere tutto ciò davanti a se stesso, ma improvvisamente sentì l’assoluta debolezza di quello che difendeva. Non c’era niente da difendere”.
Lev Tolstoj