I rapporti provenienti dall’Inapp e dall’Inail mostrano, dati alla mano, come flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, e perdita del potere contrattuale da parte dei sindacati, abbiano contribuito all’impoverimento e all’arretramento dell’intera società
Leggendo sia il primo Rapporto dell’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche), presentato alla Camera il 16 luglio scorso, sia quello dell’Inail, riferito all’anno 2020 e divulgato il 19 luglio, mi sono venute in mente le parole che pronunciò qualche tempo fa uno degli uomini più ricchi del mondo, Warren Buffett: “La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”. E gli altri, invece (le lavoratrici, i lavoratori, i precari, i giovani), l’hanno persa. Basta anche una rapida lettura dei dati di questi due rapporti per esserne convinti. In poche parole, aumenta la precarietà, i salari diminuiscono, aumentano le morti sul lavoro.
Il Rapporto Inapp: la flessibilità del lavoro aggrava la precarietà
Negli ultimi dieci anni i contratti a tempo determinato sono aumentati di oltre ottocentomila unità, registrando un’impennata del +36,3% con una variazione dell’occupazione complessiva pari appena all’1,4%. E non basta: anche la ripartizione del reddito primario (generato a seguito dell’attività di produzione), tra i detentori dei fattori produttivi in relazione alla loro partecipazione al processo di produzione, ha mostrato un peggioramento persistente come conseguenza della contrazione marcata delle retribuzioni salariali a fronte della tendenza crescente, seppur debolmente, della produttività del lavoro. Tra i motivi che il Rapporto indica, anche “la perdita di potere contrattuale da parte dei sindacati”.
Il primo Rapporto dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, che riprende una tradizione trentennale e prova a tracciare in otto capitoli le trasformazioni in corso nel mercato del lavoro e nei sistemi della formazione professionale, a fronte delle macro-tendenze globali di cambiamento dei sistemi economici, non reca buone notizie per il mondo del lavoro. Nel 2020 la quota di precariato sul totale degli occupati è passata dal 13,2 al 16,9%. La categoria più colpita risulta essere quella dei giovani.
La flessibilità nel nostro Paese si traduce, così, in una sempre maggiore precarietà: un andamento che continua anche nella ripresa post-Covid, dove sono sempre i contratti a termine, part time e di somministrazione, a essere scelti dalle imprese (nel trimestre marzo-maggio 2021 gli occupati precari sono saliti di 188mila unità, mentre gli stabili sono diminuiti di settantamila).
“Le politiche di cosiddetta flessibilizzazione del mercato del lavoro introdotte dalla fine degli anni Novanta – si legge nello studio – hanno incoraggiato strategie competitive basate esclusivamente sul contenimento dei costi unitari del lavoro”: e questo ha finito per ridurre “la quota di valore aggiunto distribuito al fattore lavoro”.
Questa politica è stata sempre giustificata con lo stesso slogan: la precarizzazione dei contratti di lavoro non è piacevole, ma è necessaria per stimolare le imprese ad assumere e ridurre così la disoccupazione – ed ecco i risultati! Come sottolinea l’economista eterodosso Emiliano Brancaccio, l’88% delle analisi empiriche uscite nell’ultimo decennio evidenziano come questo slogan non abbia solide basi scientifiche. L’evidenza mostra che i contratti precari rendono i lavoratori più docili – e quindi provocano un calo della quota salari e, più in generale, un aumento delle disuguaglianze. Anche questo risultato trova conferme in alcuni studi pubblicati dalle principali istituzioni, dal National bureau of economic research al Fondo monetario internazionale. Alla forte crescita, in questi anni, dei contratti a termine non ha corrisposto una significativa creazione di nuova occupazione, semmai la conferma di uno stato di incertezza e precarietà – ha spiegato il presidente dell’Inapp, Sebastiano Fadda.
Non è migliore la situazione nella Pubblica amministrazione, con la riduzione progressiva e costante del numero di dipendenti pubblici avvenuta negli ultimi vent’anni (circa 350mila unità, pari al 10% dell’organico, di cui 212mila nell’ultimo decennio). Alla riduzione di personale ha fatto da contrappunto il suo crescente invecchiamento, con un’età media dei dipendenti di 50,7 anni (era di 44 nel 2003) e una quota di under 30 pari ad appena il 3% del totale dei dipendenti, sei volte in meno degli over 60 (18%).
Nella Pubblica amministrazione, in modo particolare, il rapporto analizza due settori: quello sanitario (un medico su cinque ha più di sessant’anni, sono previste per anzianità nei prossimi cinque anni 25mila uscite che salgono a 42mila per gli infermieri) e quello della scuola (negli ultimi dieci anni, malgrado le assunzioni, il personale over 60 è più che raddoppiato, e il suo peso sul totale è passato dal 9 al 20%, tra i docenti a tempo indeterminato, il 22% ha più di 60 anni, e un altro 22% appartiene alla classe 55-59 anni: in tutto sono più di 280mila insegnanti (su 640mila) che per anzianità usciranno da qui ai prossimi cinque anni).
Per converso, la platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza durante l’ultimo anno è raddoppiata raggiungendo 2,8 milioni di persone: segno evidente di un’Italia dove, per via dell’emergenza sanitaria, si è aggravata la povertà.
Aumentano i morti sul lavoro ma (quasi) nessuno controlla
I dati sulle denunce di infortunio nel 2020 registrano, rispetto all’anno precedente, un calo dei casi in complesso e l’aumento significativo di quelli mortali. Nel 2020, secondo l’Inail, gli infortuni sul lavoro denunciati sono stati 571.198, in calo dell’11,4% rispetto ai 644.993 del 2019. Circa un quarto è relativo a contagi da Covid-19 di origine professionale. Questo calo corrisponde al decremento delle attività produttive. Ma paradossalmente (però non troppo) le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale sono state 1.538, in aumento del 27,6% rispetto ai 1.205 casi mortali denunciati nel 2019. Oltre un terzo riguarda decessi causati dal Covid-19.
Gli infortuni mortali per i quali è stata accertata la causa lavorativa sono 799 (+13,3% rispetto ai 705 del 2019), di cui 261, circa un terzo del totale, occorsi “fuori dell’azienda” (i casi ancora in istruttoria sono 93). Gli incidenti plurimi, che hanno comportato la morte di almeno due lavoratori contemporaneamente, sono stati quattordici, per un totale di ventinove decessi.
“La pandemia ha fortemente condizionato l’andamento del fenomeno infortunistico nel 2020 – ha spiegato il presidente dell’Inail Franco Bettoni, commentando questi dati –, da un lato, infatti, ha comportato la riduzione dell’esposizione a rischio per gli eventi ‘tradizionali’ e ‘in itinere’, a causa del lockdown e del rallentamento delle attività produttive, dall’altro ha generato la specifica categoria di infortuni per il contagio da Covid-19”.
Le aziende ispezionate sono state 7.486 e l’86,57% sono risultate irregolari. I lavoratori regolarizzati sono stati 41.477 (-16,76% rispetto al 2019), di cui 39.354 irregolari e 2.123 in nero. Sono state accertate retribuzioni imponibili evase per circa un miliardo e mezzo di euro e richiesti premi per oltre 38 milioni di euro. Risultati raggiunti, rileva l’istituto, nonostante il progressivo assottigliarsi delle risorse ispettive che, a dicembre 2020, erano pari a 246 unità (nel 2019 erano 269). In queste condizioni, è difficile praticare un’attività preventiva né un lavoro capillare di sanzione contro imprenditori che risparmiano sulla sicurezza oltre che sui diritti dei lavoratori.
Slogan senza basi scientifiche
Ancora secondo Brancaccio, “la deregulation del lavoro è lo ‘spirito del tempo’ che ha dominato la politica economica dell’ultimo trentennio. È stata la riforma ‘strutturale’ più pervasiva, che ha reso i mercati del lavoro sempre più precari e più simili tra loro”. L’idea che le tutele del lavoro rappresentino un ostacolo alla ripresa dell’occupazione non ha adeguate basi scientifiche. Anzi, insistendo con la precarizzazione dei contratti si corre il rischio opposto: una depressione dei salari tale da scatenare una deflazione da debiti.
Dovrebbe, dunque, essere chiaro che lo slogan liberista non ha basi scientifiche e che la “flessibilità”, invocata ancora oggi da Confindustria e da alcuni esponenti di governo, comporta depressione dei salari e deflazione da debiti.
La Confindustria di Bonomi chiede, infatti, di mettere di nuovo mano al diritto del lavoro, eliminando le causali per i contratti a tempo determinato. Qualcuno si spinge oltre e propone di abolire il reintegro dei licenziati senza giusta causa assunti prima del Jobs act. Sul “Sole 24 Ore” l’economista Marco Leonardi, quando era consigliere del ministro Gualtieri, propose di congelare le causali per i contratti a tempo determinato per “rimuovere ogni ostacolo normativo alla ripresa”. Ciò che occorre rimuovere, invece, sono le politiche liberiste per il mercato del lavoro.