di Marinella Perroni
C’è una questione femminile in campo religioso. Un tema aperto, un cantiere di dibattiti, rivendicazioni e aspirazioni che toccano tutti, anche gli uomini, e non solo ora alla vigilia dell’8 marzo. In queste pagine «la Lettura» fa il punto sull’ac-cesso al sacerdozio cattolico e riprende la discussione sul ruolo delle don-ne nelle istituzioni della fede avviata sul numero #421 del 22 dicembre 2019 con una pastora valdese, Daniela Di Carlo, una futura rabbina, Miriam Camerini, e una guida spirituale islamica, Nibras Breigheche, alle quali ora si aggiunge l’abate buddhista Anna Maria Shinnyo Marradi
Marinella Perroni
Studiano per diventare le donne-prete di domani: con questo titolo a caratteri cubitali, nel lontano 1972, un settimanale cosiddetto «femminile» introduceva un’intervista che mi era stato chiesto di rilasciare perché ero una delle prime donne che avevano varcato la soglia delle Facoltà teologiche romane. In realtà, non mi era stata fatta nessuna domanda riguardo al sacerdozio. Molta, quindi, è stata la mia irritazione. Per due motivi.
Il primo è più di fondo. Dopo il Concilio Vaticano II è stato permesso ai laici, non escluse le donne, di frequentare il cursus maior degli studi teologici nelle Pontificie facoltà romane, fino ad allora aperto solo a maschi che si preparavano al sacerdozio, e di conseguire tutti i gradi accademici. Era una rivoluzione silenziosa: in Italia il regime di monopolio ecclesiastico sulle facoltà teologiche comportava che lo studio teologico fosse funzionale soltanto alla carriera ecclesiastica. E alle donne — come si sa bene — la strada verso l’ordinazione sacerdotale è totalmente sbarrata. E anche oggi, benché dopo ormai cinquant’anni numerose donne siano state cordialmente accolte in tutte le Facoltà, abbiano conseguito i gradi accademici e un certo numero di loro vi insegni come docente stabile, la presenza schiacciante di studenti candidati al sacerdozio lo caratterizza come un mondo assolutamente clericale.
Ciò nondimeno, tante di noi hanno sviluppato un’autentica passione per la teologia che ci ha portato ad affrontare un curriculum di studi lungo almeno nove anni, impegnativo e, per la maggioranza, privo di sbocchi lavorativi. Lo scopo non era assolutamente il sacerdozio, ma, al contrario, cooperare a quel processo di declericalizzazione della teologia che l’avrebbe in qualche modo collocata, come negli altri Paesi, nell’agorà dei saperi e che avrebbe garantito anche al laicato una intelligenza della fede solida e criticamente vagliata. Alcune, è vero, coltivavano anche il desiderio profondo di essere finalmente ammesse al sacerdozio. D’altra parte, Santa Teresa del Bambin Gesù (1873-1897), che nel 1997 Giovanni Paolo II ha proclamato dottore della Chiesa, non aveva forse scritto nella sua autobiografia: «Sento in me la vocazione di sacerdote»? La piccola Teresa invidiava infatti ai sacerdoti la cultura, la predicazione e la celebrazione, soprattutto quella dell’eucaristia: perché un secolo dopo si trattava ancora solo di un desiderio?
Il secondo motivo del mio risentimento per quel titolo strillato era più congiunturale: in quel momento, le donne che avessero pubblicamente rivendicato il sacerdozio sarebbero state fortemente sanzionate. Giovanni XXIII, è vero, aveva stupito la cattolicità quando, nella sua ultima enciclica Pacem in terris (1963), aveva riconosciuto l’importanza del fenomeno dell’«ingresso della donna nella vita pubblica» precisando che «nella donna, infatti, diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come strumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica». Non sappiamo però se quel Papa, pur attento alle trasformazioni sociali, sarebbe stato capace di sciogliere il nodo della questione.
Quanto sappiamo per certo è che, all’epoca del Concilio, la Chiesa cattolica era attraversata in tutto il mondo da fermenti innovativi di cui erano portatrici soprattutto le donne e che la problematica che riguardava il sacerdozio aveva fatto irruzione all’interno del Concilio stesso grazie alla distribuzione di una pubblicazione anglo-tedesca a firma di Gertrud Heinzelmann, ma che raccoglieva il lavoro anche di altre teologhe, dal titolo provocatorio «Non possiamo stare più a lungo in silenzio». Le donne esprimono il loro parere al Concilio Vaticano II. La gerarchia ecclesiastica di allora, però, non era in grado di cedere all’urto del tempo. Anzi.
Di documento in documento
In realtà, verso la fine del suo pontificato Paolo VI ha cercato un modo per andare a fondo della questione e ha incaricato il gruppo internazionale di studiosi che formava la Pontificia Commissione Biblica di esaminarla dal punto di vista del fondamento scritturistico. Capiva infatti che, di fronte alle pressioni del femminismo, gli argomenti tradizionali su cui da molti secoli si fondava l’interdetto — la responsabilità di Eva e, con lei, di tutte le donne nell’aver fatto entrare il peccato nel mondo e l’impurità cultuale delle donne a causa del sangue mestruale — sarebbero stati un boomerang. È però del tutto plausibile che il documento redatto dalla Commissione abbia deluso le aspettative del Pontefice, dato che nella Bibbia non è certo possibile rintracciare ragioni solide e definitive per sostenere l’esclusione delle donne dagli ordini sacri. Paolo VI ne vietò la pubblicazione e lo tenne nascosto. Se i suoi successori lo abbiano ritrovato, non ci è dato saperlo. Venuto alla luce solo nel 2015, è stato reso pubblico sulla rivista «Il Regno», ma senza che questo abbia provocato alcuna reazione ufficiale.
Per mezzo secolo, invece, i tre pontefici che hanno guidato la Chiesa nel passaggio al terzo millennio non hanno fatto che confermare l’esclusione delle donne da ogni servizio all’altare.
Praticata da sempre, l’esclusione era diventata ufficiale fin dal 1210 e poco più di sette secoli più tardi aveva trovato nel Codice di diritto canonico del 1917 la sua perentoria formulazione — «Solo i maschi battezzati possono ricevere gli ordini sacri» (Canone 968, § 1) —, per di più corredata da diverse altre prescrizioni che interdicono alle donne qualsiasi ruolo liturgico attivo.
Il 15 ottobre 1976 Paolo VI ha approvato una Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede (Inter insigniores), esplicitamente dedicata alla questione dell’ammissione delle donne al sacerdozio ministeriale che stabilisce il tracciato sul quale si muoveranno in seguito anche i suoi successori: nonostante le istanze del tempo siano ormai pressanti e nonostante le Chiese cristiane nate dalla Riforma abbiano accettato di conferire il ministero pastorale anche alle donne, la Chiesa cattolica «per fedeltà all’esempio del suo Signore, non si considera autorizzata ad ammettere le donne all’Ordinazione sacerdotale».
Gli argomenti, che resteranno gli stessi anche in seguito, sono: Gesù e gli apostoli non hanno ordinato nessuna donna; se alcune comunità dei primi secoli lo hanno fatto, sono state ritenute eretiche e la tradizione della Chiesa è rimasta stabile al riguardo anche per le Chiese d’Oriente. Il combinato disposto di Scrittura e Tradizione, insomma, impedisce alla Chiesa di apportare modifiche a una prassi secolare.
Non è possibile qui addentrarsi nelle singole argomentazioni per rilevarne la fragilità. Anche perché dal punto di vista storico è ormai chiaro che solo motivi apologetici e missionari hanno spinto le prime Chiese che si andavano formando e strutturando all’interno dell’Impero romano ad accettare il codice androcentrico di quel mondo. Gesù aveva rifiutato per la sua comunità discepolare qualunque forma di gerarchia, anche quella fondata sulla differenza tra i sessi, ma il patriarcato giudaico, prima, e in seguito quello greco-romano hanno invece improntato la struttura delle Chiese nascenti anche sul fondamento della gerarchia tra i sessi. Non c’è dubbio che duemila e più anni di patriarcato non si cancellano in un batter d’occhio, ma è ben possibile ritenere che, se le Chiese dei primi secoli hanno deciso di assumere una forma istituzionale che niente aveva a che vedere con il gruppo discepolare del Nazareno, possano fare altrettanto anche quelle del terzo millennio, come mostra l’esperienza delle Chiese nate dalla Riforma, o quella della Chiesa Veterocattolica formata in reazione alla proclamazione del dogma dell’infallibilità al Concilio Vaticano I (1870). Dal canto loro, le Chiese anglicane fin dagli anni Settanta hanno subito lacerazioni e defezioni proprio a causa della decisione di ammettere le donne al presbiterato e all’episcopato, fino al punto che alcuni loro pastori hanno chiesto di essere accolti nella Chiesa cattolico-romana e, poiché non hanno voluto rinunciare a mogli e figli, rappresentano una piccola enclave di clero cattolico sposato.
Comunque, nel 1994 sarà Giovanni Paolo II a conferire all’esclusione delle donne dai ministeri un carattere ancora più deciso con una Lettera apostolica sull’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini (Ordinatio sacerdotalis). Il suo rifiuto è senza appello. Fino al punto che il Pontefice avrebbe voluto farne materia di un pronunciamento infallibile, ma, probabilmente su suggerimento dell’allora cardinale Ratzinger, si convinse ad accettare una formulazione meno deflagrante: «Dichiaro che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa». Nel 1998 Ratzinger non farà che confermare la linea: la sua affermazione che il sacerdozio «è una realtà che precede la volontà della Chiesa, una volontà precisa del Signore stesso e la Chiesa non può far altro che obbedire nell’obbedienza della fede», creerà però un certo sconcerto tra molti teologi per i quali la struttura ministeriale della Chiesa non è di diritto divino, ma un portato delle epoche storiche.
La dura presa di posizione di Giovanni Paolo II può stupire, perché sei anni prima lo stesso Karol Wojtyła aveva scritto la Lettera apostolica sulla dignità e la vocazione della donna (Mulieris dignitatem) ed era così entrato nell’immaginario collettivo come il Papa delle donne. In realtà, riprendendo appieno la posizione di Paolo VI, egli conferma che la linea da tenere è quella di sempre, ma con ancora maggiore enfasi di sempre. All’esaltazione della donna in nome del riscatto che Maria ha pagato per il peccato di Eva, non corrisponde però l’ascolto delle donne reali, delle loro fatiche e delle loro aspettative; all’idealizzazione della donna e alla magnificazione delle sue virtù corrisponde invece la sua esclusione da ogni riconoscimento ministeriale.
Per quanto riguarda il Codice, la formulazione del 1917 verrà confermata dalla nuova versione del 1983 e verrà addirittura inasprita da Benedetto XVI e poi da Francesco che, tra i delitti «più gravi», cioè accanto alla pedofilia e alla pedopornografia, hanno inserito nel Codice il reato canonico di ordinazione sacerdotale di una donna, punito con la scomunica automatica sia del vescovo che la compie che della donna che la riceve. È pur vero, però, che Francesco sembra fare un passo, se non in avanti almeno di lato, quando ha recentemente accettato che la prassi già messa in campo da molti vescovi in tutto il mondo di affidare il ministero di «lettore» e di «accolito» — cioè assistente all’altare — anche alle donne, superi l’occasionalità e venga considerata stabile e istituzionalizzata. Sarebbe complesso spiegare le sottigliezze con cui Francesco argomenta questa modifica del Diritto canonico. Sta di fatto, però, che la sua decisione rende palese che il Diritto canonico può essere modificato anche sul delicato punto dell’impedimento ai ministeri in ragione dell’appartenenza sessuale.
Tutto questo provoca un crescente malessere. Da tempo, poi, la situazione è ormai sfuggita di mano perché alcuni vescovi hanno cominciato a ordinare, incorrendo così nella scomunica da parte di Roma, donne al sacerdozio e all’episcopato avviando una forma di successione apostolica inclusiva delle donne che Roma considera invalida. Dal sito del movimento Roman Catholic Women Priest (Rcwp) è possibile vedere che l’esercizio del ministero presbiterale da parte di molte donne è già un fatto. Anche se la maggioranza di vescovi e fedeli non accetta di imboccare la strada della rottura, il disagio è ormai vistoso: basta pensare ai vescovi dell’Amazzonia e alla loro richiesta — respinta da Francesco — di ordinare alcune donne almeno al diaconato, oppure all’istanza che i partecipanti al cammino sinodale della Chiesa di Germania hanno intenzione di presentare a Roma perché accetti di ammettere le donne all’ordinazione ministeriale.
Maria e Pietro
Fa da sfondo al reiterato rifiuto del sacerdozio alle donne una concezione della differenza sessuale e di genere divenuta convenzionale nell’immaginario clericale. In «gergo» si chiama «il principio mariano-petrino» e altro non è che la trasposizione teologica del bipolarismo maschile-femminile. Paolo VI lo riprende nella Marialis cultus, Giovanni Paolo II lo assume e lo rilancia nella Mulieris dignitatem, Benedetto XVI se ne serve addirittura per spiegare senso e valore della porpora cardinalizia e Francesco lo ha immediatamente utilizzato per chiarire cosa debba significare una Chiesa composta di donne e uomini.
Come tutti i bipolarismi, anche quello maschile-femminile ha facile presa perché ingabbia la complessità dentro uno schema e genera stereotipi: a una lettura simbolica, le figure evangeliche di Pietro e Maria possono trasformarsi in princìpi a cui la Chiesa deve la sua stessa costituzione unitaria perché nella sua essenza la Chiesa è insieme «mistico-mariana» ed «apostolico-petrina». Il principio mariano rimanda infatti alla caratterizzazione «materna» e «domestica» del femminile, conseguente a una comprensione antropologica e sociale della sessuazione femminile in termini di interiorità, accoglienza e nascondimento; mentre il principio petrino richiama quanto, nel sistema simbolico patriarcale, caratterizza il maschile, cioè forza, autorità, potere. Tra loro ben distinti, i due principi garantiscono che la Chiesa sia in grado di assicurare a donne e uomini l’esercizio di ruoli e funzioni conformi alla loro essenziale differenza. All’apice di una tale costruzione simbolica c’è però un inatteso ribaltamento di prospettiva che mira di nuovo all’esaltazione del femminile: ogni istituzione e ministero, anche quello di Pietro e dei suoi successori, è «compreso» sotto il manto della Vergine, la struttura ecclesiastica apostolico-petrina è ordinata alla santità di cui Maria è figura esemplare, la mistica mariana precede e include la ministerialità petrina. Per dirla con Papa Francesco: le donne non devono ambire a ministeri ecclesiastici perché Maria è comunque più importante di qualsiasi cardinale.
Inutile dire che da più di un secolo, da quando cioè le scienze umane hanno messo a nudo la fragilità definitoria di quanto va ritenuto «maschile» o «femminile» e da quando il pensiero femminista ha smascherato come androcentrica e patriarcale la subordinazione tra i sessi, tanto la visione antropologica cattolica che le sue ricadute sul piano dell’organizzazione ecclesiastica sono oggetto di riflessione e di discussione. Ben sapendo che una millenaria tradizione intellettuale, se viene assunta con rispetto, ma anche con lucidità, porta sempre già in sé stessa germi di futuro.
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