Resistere. Contrattaccando, schivando, spiegando, ricordando e promettendo… La parola d’ordine è partita, secca e veloce, dal primo piano di Palazzo Chigi diretta allo stato maggiore del Pd. Obiettivo: fare quadrato attorno al sindaco Ignazio Marino, ancora una volta bersaglio del fuoco concentrico delle opposizioni. L’atteso sequel dell’inchiesta Mafia Capitale ripropone con inequivocabile evidenza uno schema nel quale il primo cittadino romano rappresenta l’anello debole del complesso sistema politico-amministrativo che governa la Capitale. La pagella decisamente insufficiente che gli viene affibbiata dalla stragrande maggioranza dei romani come gestore della città mette ancora una volta il Pd in grave difficoltà nel difenderlo. Al di là delle smentite di prassi, non è un mistero che lo stesso presidente del Consiglio si sia più e più volte lamentato dei problemi che Marino ha creato al Pd e al Governo. E se ancora in queste ore un renziano d.o.c. come Michele Anzaldi non riesce ad andare oltre uno striminzito «non ha passione», è lapalissiano che la difesa riguarda più la posizione che la persona. Hai voglia a ripetere che solo grazie a Marino la gang artefice del nuovo «sacco di Roma» non ha tracimato e che Campidoglio e Procura hanno camminato di pari passo. La verità è che la corruzione ha lambito ogni angolo della città, costruendo geometrie politiche nelle quali una certa destra e una certa sinistra si sono fluidamente incastonate. Il potere e i soldi — ma in qualche caso anche solo il loro odore, o poco più — hanno fatto ancora una volta da collante tra politica e pezzi di una società con molto appetito e pochi scrupoli. Il rimbalzo tra le amministrazioni che si sono susseguite ha perfezionato i meccanismi, ha solidificato amicizie e alleanze, ha permesso nuovi «acquisti» e consentito infine al signor Buzzi di poter dire «ci mangiamo Roma». Non ci sono riusciti ma certo hanno colpito la città. Si sa che i romani sono disincantati al limite del cinismo, ma il senso di rabbia che si percepisce nel loro vissuto è ormai forte, diffuso, cattivo. E si capisce, dunque che il Pd tutto voglia fare meno che andare a votare per sostituire Marino. Si capisce un po’ meno l’opposizione di centrodestra che invece la testa di Marino la vuole per conquistare quelle urne dalle quali si aspetta forse un riscatto. Che, per la verità, i più intelligenti di quello schieramento ammettono, non proprio pubblicamente, di vedere difficile visto che i disastri della giunta Alemanno sono ancora negli occhi dei romani e in molte carte dei magistrati. La verità è che il vero spauracchio, a destra come a sinistra, ha le sembianze di Beppe Grillo e di un movimento che, lungi dall’essersi scolorito, ha mostrato nelle ultime regionali di essere vivo, organizzato e, dunque, «pericoloso». La politica gioca la sua ennesima partita. Ed è sacrosanto che lo faccia, ma con la consapevolezza che — di fronte ad una situazione eccezionalmente grave — non possono più essere ammessi sgambetti, combine e meline. Ci permettiamo di suggerire che in queste ore la vera parola d’ordine debba essere «chiarezza».
Oggi non è più in gioco la salute di questo o quel partito, ma la sopravvivenza di quel che resta di una credibilità della classe dirigente di una città, di una Regione. E nessuno può arrogarsi il diritto di mettere coperchi e pezze dove non è più possibile e giusto. Una città che aspetta l’ondata di piena di turisti e pellegrini per l’inatteso Giubileo straordinario, che si candida alla conquista delle Olimpiadi del 2024 e che, soprattutto, deve garantire ogni giorno ai suoi milioni di cittadini un tasso di vivibilità degno di una capitale europea, non può essere piegata ancora una volta a interessi politici di bottega. Il che vale per tutti i leader di governo e opposizione.
Antonio Macaluso