Il libro Una rilettura della statua nella tomba di Giuliano duca di Nemours a San Lorenzo La firma Giangiacomo Schiavi e la dedica al medico che per primo notò qualcosa di strano
Tutto inizia una mattina di circa sei anni fa quando l’oncologo Gianni Bonadonna si trova impegnato, come centinaia di altre volte in altrettanti convegni medici, a mostrare al pubblico una fotografia de La Notte di Michelangelo. Con quel dettaglio del seno irregolare e sospetto: un carcinoma mammario, in tutta probabilità. Bonadonna è già molto malato, le conseguenze dell’ictus che lo ha colpito molti anni prima lo affaticano e lo rallentano. Tanto che un certo punto del discorso si blocca, non riesce più a parlare. D’istinto interviene Giangiacomo Schiavi, ex vicedirettore del Corriere della Sera , suo amico, anzi «la sua mano scrivente» come si definisce lui. Afferra il microfono per spezzare il silenzio: «Sta facendo la diagnosi a Michelangelo» dice.
È una battuta, serve a spezzare la tensione. «Ma quella sera — racconta Schiavi — il professore ci ripensa e mi dice: però… e se la facessimo davvero, la diagnosi a Michelangelo?». Gianni Bonadonna è morto circa un anno dopo «e io volevo risarcire la sua memoria, ma me lo sono trascinato per cinque anni questo libro: non è facile confrontarsi con Michelangelo» prosegue il giornalista ed editorialista del Corriere dove cura la rubrica di lettere Noi cittadini . Ecco come nasce il volume, da pochi giorni uscito per la collana le Onde de La Nave di Teseo, Il mistero della Notte – Una diagnosi per Michelangelo . È un risarcimento alla memoria di uno dei più grandi medici del nostro tempo. E uno sguardo diverso su uno dei capolavori della Basilica di San Lorenzo a Firenze.
Ecco, Schiavi. Iniziamo dal rapporto tra lei e Bonadonna. Un giornalista e un medico.
«Sono stato la sua mano scrivente negli ultimi anni. Ma questa storia inizia prima, quando lui si trova a New York per un convegno. Negli Stati Uniti era conosciuto come il medico che nel mondo ha fatto partire la chemioterapia adiuvante per il tumore al seno, era famosissimo. E quel giorno vanno a trovarlo due medici del New England che intendono chiedergli un parere su una loro ipotesi: studiando le sculture di Michelangelo hanno avuto la sensazione che l’imperfezione scolpita sul seno de La Notte fosse un tumore. E gli chiedono una conferma. All’inizio è un po’ sorpreso, si chiede perché per mezzo millennio nessuno si è mai fatto questa domanda. Nota una retrazione cutanea, tipico aspetto del carcinoma mammario».
Nessuno si era mai fatto queste domande guardando la statua in San Lorenzo?
«Si erano già interrogati in tanti nella storia sul perché dello sguardo basso e sofferente della donna scolpita. Ma lo stesso Michelangelo in un sonetto spiega quei particolari con il fatto che lei è triste per le guerre continue in cui Firenze è impegnata in quegli anni, come a voler distogliere lo sguardo dagli orrori della città. Ma il mistero non era mai stato svelato del tutto».
La modella di Michelangelo cosa rappresenta nel nostro interrogarci sul concetto di bellezza?
«Nel professor Bonadonna scatta il riflesso dell’occhio clinico: nel vedere questo seno imperfetto, che Michelangelo ne fosse consapevole o meno, ci vede la rappresentazione della bellezza come accettazione dell’imperfezione in quanto tale. Un segno, come a dire che non dobbiamo avere paura di mostrare un difetto. Diventa per lui un’immagine ricorrente nei congressi medici, per raccontare come il tumore fosse qualcosa di antico. E proprio lui che ha combattuto anni per evitare alle donne la mutilazione del seno, mostrava quella immagine come simbolo di una “bellezza ciononostante”».
Ma ne trae un insegnamento anche per se stesso…
«Dopo l’ictus che ne compromette le capacità scientifiche, Bonadonna scopre anche la sua di imperfezione, scopre come si sta dall’altra parte e scopre che il primo bisogno assoluto per il malato è quello dell’umanità. Continua a guardare La Notte e ora ci scopre dentro il senso dell’umanità ferita».
Nel libro, che si rifà all’ esperienza di Bonadonna con La Notte ma ha elementi di finzione, tutto inizia da un sogno.
«Il professore è arrivato a un punto della vita in cui sente il bisogno raccontare un significato diverso di sé. Rivede il film della sua vita, tutte le sue battaglie. Lui stesso diventa La Notte : è in carrozzina, invalido, dopo 10 anni di malattia, di difficoltà. E cercando di rielaborare il senso di quel sogno, inizia a fare una vera diagnosi alla statura, scoprendo qualcosa di più profondo».
Ma per farlo chiede aiuto e tanti punti di vista.
«Gli serve un’indagine multidisciplinare sull’opera d’arte. Non basta l’occhio del medico. Qui comincia la narrazione del libro. Con le diagnosi che fanno per lui altri occhi: quello di uno psicologo, di una senologa, di un filosofo, di un chirurgo plastico, di un poeta, di un oncologo, e altre ancora. Tante interpretazioni. Per poi arrivare alla diagnosi: quella è l’imperfezione che è in tutti noi».
Che ci pone delle domande…
«Ci chiediamo se siamo in grado di capire e rappresentare la grandezza di Michelangelo attraverso questa imperfezione. Lui ne era consapevole? La Notte è una statua metafora della vita e della morte, con le sue allegorie, ma è anche “la notte” di Lorenzo e Giuliano de’ Medici».
E qui si va ben oltre la medicina. Si va verso la filosofia.
«Cosa resta di noi, si chiede Michelangelo, oltre la notte? Resta quello che siamo riusciti a fare per gli altri. Per Michelangelo è ciò che la memoria conserva e si porta dietro. Dentro tutta la storia di Bonadonna c’è lo studio e la passione che nel corso degli anni avvicina la sua attività all’arte e quindi l’arte alla medicina. Le due discipline — dice lui — parlano un linguaggio “che a tratti mi somiglia”».
Cosa vedono nella statua i personaggi — il filosofo, la senologa, ecc —che partecipano alla diagnosi?
«I dettagli dello sguardo. La poetessa addirittura vede un serpente nella treccia che scivola giù “minacciando” il seno malato. È una suggestione da poeta, ma lo vede. La lettura più enigmatica è quella del terapista del dolore che scorge nella simbologia della maschera piegata, e della civetta ai piedi, gli elementi che lasciano una forma inconsapevole del dolore su un volto apparentemente sereno. Secondo il filosofo noi siamo degli imperfetti alla ricerca dell’imperfezione che deve essere uno stimolo a non rassegnarci ma non qualcosa che ci deve far sentire diversi. In questo senso è anche un inno alla speranza».
Questi studi cosa ci raccontano? A quali domande danno risposte?
«Il professore coglie un messaggio inespresso: l’arte che mostrando un’imperfezione ne fa un canone di bellezza. E così riabilita una ferita della vita. Come il tumore al seno. Perché — dice — noi siamo straordinari nella nostra unicità. Nel coraggio di mostrarci nella nostra malattia».
Che animo poetico, per uno scienziato…
«È un medico abituato a scrivere e leggere la storia, un medico ippocratico, seguiva l’insegnamento di Paracelso, aveva un’idea della medicina come fosse un’arte, l’arte della seduzione nei confronti del malato. Era un medico che voleva andare più in là della medicina. Considerava più importante curare il malato che la malattia».
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