Un tiepido pomeriggio d’inizio autunno, a Napoli. Fino a qualche anno fa il Real Bosco di Capodimonte è stato vittima di un drammatico degrado: discarica, rifugio per spacciatori e prostitute, zona franca per commerci illegali. Il direttore Sylvain Bellenger ha ripulito questo vasto polmone verde. Lo ha riportato ai fasti settecenteschi e annesso al sito museale, dando vita a un campus nel quale la pinacoteca è in dialogo con il giardino storico, con la riserva botanica e con le aree per lo sport e il benessere.
Dopo aver percorso lunghi viali alberati, si incontra la Cappella San Gennaro. Una piccola chiesa di campagna progettata nel 1745 da Ferdinando Sanfelice per volere di Carlo di Borbone. Sovrastata da un campanile, la facciata è essenziale. Piuttosto abbandonato, l’interno ha conservato l’impianto originario ovale con decorazioni sobrie. Sull’altare maggiore, un olio su tela raffigurante il santo protettore (attribuito a Francesco Solimena).
Grazie a una coraggiosa iniziativa di Bellenger, la struttura cambia fisionomia, pur nel rispetto della sua identità barocca (l’inaugurazione è fissata per il prossimo dicembre.) Autore di questa «riscrittura» è una celebre archistar, Santiago Calatrava. L’architetto-ingegnere valenciano ha qui ragionato non da restauratore ma da «artista totale», erede di una tradizione che dal Rinascimento arriva al Romanticismo. Insofferente nei confronti della retorica d’impronta postmodernista, poco attratto dal confronto tra antico e nuovo, in una pausa del suo recente soggiorno napoletano, dice: «Mi sono comportato come l’ideatore di un’installazione, non come un architetto che inventa un’architettura su un’altra». Un artista totale, appunto. Che ha trattato l’involucro dell’architetto Ferdinando Fuga come una cornice all’interno della quale si è mosso con una certa disinvoltura. E con un obiettivo: «Trasformare questa chiesa in materia vivente. E farvi entrare la luce di Napoli».
Regista impegnato a dirigere gli interpreti del suo film e, insieme, abile attore, Calatrava ha dipinto le pareti e il soffitto con un intenso blu oltremare costellato di stelle dorate, evidenziando così gli elementi strutturali della cappella, in modo da conferire un’inattesa profondità all’architettura settecentesca. Poi, ha ripreso alcuni motivi tradizionali dell’iconografia religiosa. Ha riempito le nicchie di vasi di porcellana in forma di uccelli, fiori, rami e foglie; sistemato vasi vagamente picassiani sugli altari; collocato i portacandele, gli angeli e le colombe nella nicchia che ospita il battistero con la fonte battesimale; sospeso dal soffitto un uovo in ceramica. Inoltre, ha curato i preziosi paramenti di seta che coprano l’altare. Ed è intervenuto sulle vetrate (dipinte a mano, con la tecnica della cucitura a piombo).
Per la sua «azione integrata», Calatrava ha collaborato con tanti artigiani campani. Dapprima, ha realizzato un ricco corpus di disegni. Poi, insieme con i suoi collaboratori, ha modellato alcune maquette nello studio di Zurigo. Infine, ha affidato questi «materiali» ad alcune maestranze locali: i maestri ceramisti e gli allievi della Real Fabbrica di Capodimonte (diretta da Valter Luca De Bartolomeis), il maestro vetraio Antonio Perotti di Vietri sul Mare; e la seteria Alois di San Leucio.
Dunque, un’opera d’arte totale. Che è attraversata da echi classici. Le visioni di Leonardo e Raffaello, che saldano pittura, scultura e architettura. Le costruzioni intermediali di Wagner. La Cappella degli Scrovegni di Giotto e la Sistina di Michelangelo. Decisivi i rimandi agli esercizi mistici di Cézanne e a quelli di Matisse che, per la Chapelle du Saint-Marie du Rosaire in Vence, tra il 1949 e il 1951, realizzò i quadri, i disegni dei pannelli, le vetrate della cappella, l’altare, l’arredo sacro e gli abiti del celebrante. Sulle orme di quel capolavoro, Calatrava, nell’intervento napoletano, lascia affiorare un lato ancora quasi segreto del suo temperamento. Non il progettista affascinato dalle più avanzate sperimentazioni ingegneristiche, capace, con le sue architetture e i suoi ponti, di disegnare forme dinamiche e leggere. Ma l’artefice che rifiuta il freddo funzionalismo di stampo razionalista. E riscopre la bellezza di una creatività ingenua, infantile.
«Vorrei che questa chiesa piacesse alle persone semplici e ai bambini», dice Calatrava. Che, perciò, assegna un’importanza cruciale all’ornamento. Nel nostro tempo, «ornamento non è delitto», sembra dire Calatrava, capovolgendo la celebre tesi di Adolf Loos, pioniere dell’architettura moderna. «Il mio è un ornamento francescano, un po’ da Cantico delle creature: serve a enfatizzare ciò che esiste».
Ulisse colto sulla strada del ritorno verso una sorta di Itaca dell’anima, maestro «antico» che sente la necessità di risalire ad atmosfere e soluzioni pre-moderne, Calatrava osserva: «Abitiamo un’epoca dominata dalle tecnologie. Eppure, avvertiamo una certa nostalgia per un tempo dominato dalla lentezza».
Sorretto da questa urgenza, ancora influenzato dalla lezione di Matisse, Calatrava pensa la sapienza tecnico-artigianale come uno strumento da sublimare, come «il vassoio del lirismo». E confessa il bisogno di riaffermare con forza la centralità del fare manuale: «Mi affascina la traccia della mano. La potenza del gesto che ci consente di andare al di là della materia». Spingendoci verso le vette della spiritualità. Quelle vette che aveva evocato Schiller nell’Inno alla gioia, alludendo al rapporto dell’uomo con la natura e il cosmo: «Vi inginocchiate, moltitudini?/ Intuisci il tuo creatore, mondo?/ Cercalo sopra il cielo stellato!/ Sopra le stelle deve abitare!».
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