di Giorgio Montefoschi
Tutti gli elementi sui quali si fonda la paura sono presenti nell’ Isola del Tesoro , il capolavoro di Robert Louis Stevenson che molto ci fece tremare da ragazzi e ora possiamo rileggere nelle edizioni economiche della Einaudi, tradotto in maniera davvero eccellente da Massimo Bocchiola. Paura, è timore, giusto o ingiusto, oscura diffidenza nei confronti di esseri umani che vediamo per la prima volta, hanno una menomazione fisica che può essere una gamba sola, uno sgherro sulla guancia, la cecità, la mancanza di due dita, e si comportano come se una diabolica forza interiore consenta loro di non essere da meno degli altri, e anzi li spinga a essere ancora più violenti, agili addirittura nella loro menomazione. Paura, è l’attesa di personaggi sconosciuti che alla locanda dell’ Ammiraglio Bembow , sulla costa occidentale inglese, sarebbe bene non arrivassero mai, perché da questi personaggi può venire ogni disgrazia. Paura, è l’attesa di una ingiunzione — un «bollo nero» — che ti viene consegnato da mano a mano ed è una condanna a morte. Paura, è la scoperta del male: scoprire da parole inequivocabili — stando nascosto nel fondo di una botte semivuota in cui si conservano le mele — che le persone nei confronti delle quali nutrivi fiducia e simpatia, sono degli esseri abietti, dei pirati della peggior risma (la ciurma del famoso, terribile, capitano Flint), pronti a farti a pezzi per impadronirsi del tesoro verso il quale sta navigando la Hispaniola , la goletta armata a Bristol dall’ingenuo signor Trelawney. Paura, è la lama del coltello; il silenzio improvviso della natura.
Tutto comincia quando, in una giornata imprecisata del 1700, all’ Ammiraglio Bembow arriva un uomo torvo col codino incatramato, le unghie nere e rotte, e una cicatrice sulla guancia, trascinando sopra una carriola la sua cassa da marinaio. Guarda sospettoso la baia e chiede una stanza. È Billy Bones. Nessuno deve sapere che lui è lì. Se Jim Hawkins, il figlio del proprietario della locanda adesso gravemente ammalato, dovesse vedere un uomo senza due dita in una mano o un altro con una gamba sola, dovrebbe avvisarlo immediatamente. Trascorrono le settimane. Billy Bones tracanna bottiglie e bottiglie di rum. E fa racconti terrificanti — di pirati, crudeltà, terre selvagge, impiccagioni — che, nelle notti di tempesta, non fanno dormire Jim. Finché, a sorpresa, in una quieta mattina di gennaio, mentre la risacca sciaborda dolcemente sui sassi, si materializza dal nulla l’uomo a cui mancano due dita. È Cane Nero. «Non mi riconosci?» chiede beffardo a Billy Bones. È un suo vecchio compagno di bordo e d’avventure. Fra i due, a un tratto — Jim è dietro la porta — si svolge una litigata feroce, con urla, bestemmie e colpi di coltello. Cane Nero fugge. Il Capitano — così Billy si fa chiamare — giace in terra. Il dottor Livesey, il medico venuto a curare il padre di Jim morente, prescrive astinenza dall’alcol e letto. Ma il Capitano è terrorizzato: sente che il cerchio attorno a lui si sta stringendo. E rivela a Jim cos’è che cercano gli uomini che gli stanno dando la caccia. È dentro la cassa: la mappa dell’isola dei Caraibi nella quale lo spietato Flint (di cui lui era secondo) nascose un immenso tesoro frutto di una vita di rapine sul mare. Ora Flint è morto; tutti vogliono quel tesoro. Lui solo — dopo che Flint ha sgozzato i sei marinai che lo avevano accompagnato a seppellirlo — è in grado di trovarlo.
Passano altri giorni. In un pomeriggio gelido, nebbioso, dopo il funerale del proprietario della locanda, si odono i colpi ritmati di un bastone sulla strada. Fanno da guida a un vecchio cieco, Pew: la figura più spaventosa che un essere umano potesse immaginare. «Dove sono?» si lamenta. Poi afferra il braccio di Jim in una morsa d’acciaio. «Portami dal Capitano» gli dice, «e annunciagli: c’è un amico per te». In mano, ha la condanna: il bollo nero. Billy Bones muore dalla paura. Jim e la madre aprono la cassa, trovano la mappa e fuggono a raccontare gli eventi al dottor Livesey che è in casa del signor Trelawney. Irrompono i bucanieri che hanno mandato in avanscoperta Pew e trovano la cassa svaligiata. Scoppia una rissa. Il vecchio cieco urla, minaccia, è in mezzo alla strada, implora di non essere lasciato solo, viene travolto da un cavallo e ucciso. Nella casa del signor Trewlawney, immediatamente, si decide di partire per l’isola del tesoro.
Jim, naturalmente, farà parte dell’equipaggio, insieme al dottore e al capitano Smollett. Ma è anche il narratore di questo racconto meraviglioso che è un vero e proprio archetipo del racconto. Dunque, le sue azioni, le cose che farà e ascolterà, le imprese nelle quali si misurerà, e le iniziative che prenderà nel corso dell’avventura, saranno gli ingranaggi — rivelati — che muovono il meccanismo segreto che è nel fondo di ogni romanzo.
Ora, nel racconto, deve fare la sua apparizione il famoso uomo senza una gamba: Long John Silver. E Jim, a Bristol, dove lo stolto signor Trelawney ha ingaggiato la ciurma, composta nella massima parte di pirati camuffati da marinai, con la quale navigherà l’ Hispaniola , e un tale Silver che farà il cuoco, va a trovarlo nella sua taverna che si chiama Il cannocchiale . Se Flint, nel romanzo, è il Male assoluto — come scrive Pietro Citati nella introduzione che precede il volume — «Silver è il male che si adatta, si piega, si maschera, e insidia occultamente». Offre, al ragazzo, un volto amichevole — anche se dimostra qualcosa di inusitato, di animalesco, quando, per parlare con il capitano Smollett, si arrampica su per la murata. Smollett non lo ama, fin dal primo momento. Così come è diffidente nei confronti dei finti marinai, avendo sentito che tutti conoscono quello che doveva essere un segreto: vale a dire che la nave va in cerca di un tesoro. E mette in guardia sia Trewalney che il dottore. Ma ormai la nave freme, gli ormeggi tremano: nel porto di Bristol ha fatto irruzione il mare. Vengono disposte con cura le cuccette a prua e a poppa in modo che i «fedeli» siano vicini (una disposizione che Nabokov raccomanderebbe di tenere a mente, come quella delle cuccette nel Mosca-Pietroburgo sul quale salgono Anna Karenina e Vronskij), e la nave si stacca dal molo.
Sapendo che i viaggi per mare — se non si va in cerca di una balena — possono essere noiosi, Jim, che ancora non è Conrad, fino a che l’isola non appare all’orizzonte con il suo colore «uniforme e triste», e qualcuno grida: «Terra!», liquida il viaggio della Hispaniola in poche righe. Lui, in quel momento — nel momento in cui, narrativamente, spazio e tempo si congiungono — è nascosto dentro la botte delle mele; ha appena ascoltato il dialogo fra Silver e un marinaio, attraverso il quale il piano dei pirati si manifesta; corre ad avvisare il signor Trewalney, il dottore e Smollett; loro organizzano la difesa, e il romanzo precipita nel suo centro incandescente.
È incandescente, perché tutti i fatti che da adesso in poi accadranno nell’ Isola del Tesoro , questo romanzo febbrile che non concede nulla al di fuori del puro accadimento, il lettore li vedrà in una luce piena che non nasconde nulla ed è il vero segreto del romanzo: il Male nella luce abbacinante del sole. Un luce violenta, cruda, che non nasconde il gesto inaudito con il quale Silver lancia la sua stampella e spezza la spina dorsale al marinaio che non vuole seguirlo nel suo progetto infame. Non nasconde Silver che, venuto a proporre una finta tregua con la bandiera bianca, e avendo lasciato la gruccia vicino alla palizzata del fortino, è costretto a strisciare nella sabbia. Non nasconde il balzare fulmineo dietro gli alberi di Ben Gunn, l’uomo che sembra un animale e si rivelerà la chiave giusta — lui che è stato abbandonato da Flint nell’isola — per trovare il tesoro. Non nasconde il ghigno feroce, e poi il sorriso sarcastico del timoniere che insegue con la daga Jim — tornato sulla nave per la svolta decisiva del racconto — con l’intento di ammazzarlo. Non nasconde lo scheletro attorno al quale si è attorcigliata l’edera che indica la direzione del tesoro. Non nasconde il gesto terribile dei tre pirati superstiti in ginocchio, mentre la nave si allontana. Ma a quel punto il romanzo è finito. Pian piano, l’isola si allontana. Finché anche la rupe più alta, e la paura, non svaniscono nell’azzurro del mare.