Chi cerca trova è un motto inesatto, inesauribile. Tutto pende sulla volontà di trovare, ma il segreto viene allo scoperto per rivelazione, non certo perché qualcuno lo dissotterra o si ostina a stanarlo. Chi cerca non troverà mai ciò che sta cercando. Piuttosto, occorre disporsi alla caccia interiore, sicuri di trovare l’imprevisto, l’impenetrabile. Il motto è munto da un passo evangelico di Matteo: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Infatti chi chiede riceve, chi cerca trova, a chi bussa sarà aperto” (7, 7-8). Dio, però, non è una macchina delle merendine: metti l’obolo, chiedi, e sei esaudito. Dio dà un cibo che non sfama. Come si chiede – cosa si trova? Per alcuni, stare nella richiesta, nella ricerca – cioè, nell’orbita del grazie – è già una grazia, il tesoro, il ritrovamento.
Ernst Jünger ragiona su questo tema – la grande caccia spirituale, compiuta in tesa distrazione, con spensierata accuratezza – parlando dei quadrifogli.
“Che un quadrifoglio porti fortuna, lo abbiamo sentito già nella fanciullezza. Ma insieme vige una condizione, ovvero che non si può averlo cercato. Ciò suona paradossale, eppure certi uomini possiedono la dote di trovare i quadrifogli senza averli cercati con lo sguardo”.
Ciò che si cerca, a misura dell’intensità della caccia, si palesa da sé: un segreto esiste perché vuole essere svelato, ma dona i suoi veli soltanto a uno, a lui solo si concede. Che gli altri transitino nel fraintendimento: una ‘tecnica’ più sottile di quella ad altissima precisione è necessaria in questa cerca. “C’è una differenza fra il vedere e il percepire. Noi vediamo decisamente più spesso di quanto percepiamo. Percepire significa omettere. L’arte risiede infatti nel tralasciare”, continua Jünger, che, come sempre, parte da un pretesto, da un dettaglio – il quadrifoglio – per snidare le origini del mondo. La predisposizione a trovare i quadrifogli – ovvero: essere i prediletti del prato che è “come un rebus” – indica un’indole: “Costui avrà anche uno sguardo particolare sul campo della vita. Avrà anche fortuna, il suo occhio interiore riconosce i segni, quelli che conducono e quelli che respingono”.
Vierblätter, “Quadrifogli”, pubblicato in origine su “Antaios” (1960), è uno di quei testi rari, sapienziali, di Jünger, che agisce come chi dalle linee di una mano ricami uno zodiaco, una galassia di costellazioni in lotta. Il testo è edito in una nuova collana dell’editore De Piante, “Gli aurei”, per la cura di Luca Siniscalco e con uno scritto di Marino Freschi, che rievoca l’incontro con il grande scrittore nel 1987, in Italia. Per chi pratica Jünger anche un mero aneddoto ha la statura del ‘segno’: mentre leggiamo Freschi – “Appena giunto a Napoli, Jünger si meravigliò che il Vesuvio non fumasse più…” – andiamo Al muro del tempo, “Vi furono epoche in cui le notti erano illuminate dai fuochi dei vulcani ancor più intensamente di quanto non lo siano oggi dalle luci delle città. A quei tempi le città sarebbero state impossibile… L’eruzione del Vesuvio, di cui Plinio il Giovane ci ha lasciato una stupenda descrizione, fu una sorpresa; da sempre lo si era considerato un vulcano spento. Da allora, tuttavia, permane un’inquietudine”. Jünger – goethiano – ricapitola un’era geologica dalla corazza di una coccinella: per lui tra quadrifoglio e vulcano la differenza è nel sibilo degli occhi.
Luca Siniscalco – che ha curato il libro – riannoda i legami che stringono Ernst Jünger a Cristina Campo. La Campo collaborava con “Ataios”, la rivista pubblicata da Ernst Klett Verlag e diretta da Jünger e da Mircea Eliade, e nel saggio Della fiaba (ora in Gli imperdonabili, Adelphi, 1987, allora in Fiaba e mistero, Vallecchi, 1962, e, in forma definitiva, in Il flauto e il tappeto, Rusconi, 1971) cita l’articolo sul quadrifoglio. “È possibile che chi fa fiabe sia simile a chi trova quadrifogli che, secondo dice Ernst Jünger, acquista veggenza e potere augurali”. Per la precisione, Jünger dice così: “Secondo la credenza popolare il quadrifoglio rende chiaroveggenti, conferisce forza augurale”. Come si sa, la Campo era afflitta dalla “passione della perfezione”, dalla “passione, bellezza… un carattere aristocratico anzi in sé la suprema aristocrazia”, “ricordo del tempo celeste”. Allo stesso modo, il quadrifoglio, per Jünger, è lo ‘sbaglio di natura’ che rimanda all’armonia delle forme, alla natura profonda del cosmo. Il quadrifoglio non è l’eccezione, l’eccezionale, piuttosto, emblema di una regola che non si incanala in norme, affatto diversa dai codici ‘civili’, dall’ordine ornamentale del vivere comune. È lo squillo dell’assoluto, pretesa di una vita che levita o che va a quattro zampe, atta all’adorazione: inginocchiarsi è lo specchio del salto, il coro dei monaci germina la fuga dal mondo. Un trifoglio a cinque o più foglie, ci dice Jünger, “porta sfortuna”, denuncia l’abnorme, la regola infranta. Stare nel mezzo – cioè nel folto degli enigmi –, tra il normale e l’abnorme, non è per i mediocri, ma per i saggi.
La ricerca del quadrifoglio – una disposizione al vagabondaggio – è più che altro disciplina spirituale. “Gli uomini finiscono per assomigliarsi sempre più… A crescere sono le forze titaniche”, scrive, altrove, Jünger, con potenza profetica. Chi vaga per i prati vive la violenta libertà, abita il provvisorio perché di tutto è provvisto: “l’uomo ha vissuto a lungo senza Stato e forse saprà nuovamente farne a meno”. Settare nell’attesa, divorare l’ora, alcova di ogni occasione, non credere che la ricerca abbia altro esito che l’esatto.