Jobs act in standby, problemi sulle coperture
La fretta era tale che il governo si è riunito il 24 dicembre, tenendo tutti gli addetti ai lavori sulle spine, la vigilia di Natale. Il messaggio era: Matteo Renzi e il suo governo vanno di fretta e non si fermano davanti a nulla, figurarsi per una festa comandata.
L’occasione era perfetta e il tema importante, perché, ricorderete, l’ultimo consiglio dei ministri oltre al discusso decreto fiscale, di cui si riparlerà a fine febbraio perché il premier ha preferito “congelarlo” dopo le polemiche sul codicillo “Salva Berlusconi”, era soprattutto il consiglio dei ministri dedicato al jobs act. O meglio al primo pezzo, almeno, del jobs act: due dei cinque decreti che dovrebbero comporre la riforma. Una volta approvati, però, i decreti sono ancora nei cassetti di palazzo Chigi, non sono stati pubblicati sulla Gazzetta ufficiale e quindi girati alla Camere per l’ultimo parere non vincolante.
Da palazzo Chigi dicono che è questione di giorni, e che già la prossima settimana la situazione dovrebbe sbloccarsi. «Tra lunedì e martedì invieremo tutto alle commissioni», assicura Teresa Bellanova, sottosegretario al Lavoro. Il rischio però è che, se già l’idea originaria del premier di far partire i nuovi contratti a gennaio 2015 è sfumata, anche la previsione su marzo 2015 potrebbe essere ottimista, con il conseguente allungamento del periodo finestra, più volte segnalato dagli esperti: il periodo in cui cioè le aziende che pure vorrebbero assumere o rinnovare contratti già in essere, attendono in vista degli sgravi fiscali.
Attendono le aziende, ma soprattutto attendono i lavoratori. Le Camere che hanno assegnato una delega al governo,avranno poi trenta giorni per valutare il testo prodotto dall’esecutivo. Testo su cui non sono poche le perplessità, perché – notano gli uffici legislativi dei sindacati, Cgil in testa – soprattutto il primo decreto, quello che riforma il contratto a tempo indeterminato e dovrebbe trasformarlo nel famoso contratto a tutele crescenti, è in realtà la mera riforma dell’articolo 18 e si concentra per tutti i 12 articoli che lo compongono solo sul licenziamento.
«Non c’è mai alcun riferimento» dicono dalla Cgil, «al tema delle famose tutele crescenti che sono rimaste nelle intenzioni. È semplicemente la monetizzazione dell’abolizione dell’articolo 18 e dei licenziamenti senza giusta causa». Ci sarà da discutere, quindi, anche perché c’è ancora sul tappeto il nodo dell’applicazione o meno agli statali. E non solo. La minoranza Pd vorrebbe cassare l’articolo che estende le norme ai contratti collettivi e proporre di alzare l’indennità minima in caso di licenziamento senza giusta causa, da quattro a sei mesi.
«Confido nei parlamentari» non può che dire Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, «che ben sanno quanto il Paese abbia bisogno del nuovo contratto per fare nuove assunzioni».
A fermare il decreto sui contratti è però soprattutto quello sulla riforma degli ammortizzatori sociali, che mette mano all’Aspi della Fornero, estendendola. Sul sito del governo non c’è traccia del documento. La ragioneria generale dello Stato, che ha il compito di valutare se le coperture individuate dal governo sono adeguate, ha dei seri dubbi sulle coperture, che poi sono gli stessi dubbi avanzati più volte nel corso del dibattito sulla riforma, tanto dalle opposizioni parlamentari, quando dal Sole24Ore, da Stefano Fassina e dagli altri dissidenti Pd.
Troppi pochi sembrano i 2,2 miliardi di euro l’anno, trovati per il 2015 e per il 2016, e ancora meno i 2 miliardi trovati per il 2017. Apre delle voragini il confronto con quanto speso per la sola cassa integrazione in deroga nel 2014: 2,5 miliardi di euro. Scontato, anche alla luce del crescente dato sull’occupazione (nuovo record storico: 13,4 per cento) sarebbe il ricorso al fondo sociale europeo. Per il solo 2015, pur considerando che gli ammoritzzatori partiranno da maggio, mancano almeno 400 milioni.
E Renato Brunetta ne approfitta: «Dove sono finiti decreti sul jobsact? Li stanno ancora scrivendo? Non doveva entrare in vigore l’1/1?», scrive su twitter il capogruppo di Forza Italia alla Camera, «Cosa ha approvato consiglio dei ministri del 24/12?».
La minoranza del Pd cerca di tenere insieme i pezzi e invita però il governo a non farsi prendere dalla fretta, ormai, e di far procede i due decreti appaiati: «È importante avere simultaneamente il testo relativo alle tutele crescenti e quello che riguarda la nuova Aspi» dice Cesare Damiano, ex sindacalista, ex ministro del Lavoro, deputato Pd, «sarebbe negativo e paradossale che, per motivi di copertura finanziaria e di ‘bollinatura’ della Ragioneria, non si desse seguito immediatamente anche alle nuove norme relative agli ammortizzatori sociali che estendono anche ai lavoratori precari le tutele in caso di disoccupazione. In questo stretto collegamento tra i due decreti, sta buona parte della filosofia del Jobs Act che il Governo ha sempre sostenuto e che adesso non può ignorare».
Poi, con meno fretta, si dovranno fare anche gli altri decreti. Quello sulla maternità, quello sulle politiche attive, e soprattutto quello sul famoso disboscamento dei contratti precari, lasciato per ora da parte. Ma c’è tempo fino a giugno. «Per noi» dice Damiano all’Espresso, «ora è fondamentale che non si perda per strada la nuova aspi, perché altrimenti veramente restano solo i licenziamenti più facili e la diminuzione delle tutele, e la bilancia della riforma non è più allineata. Il governo deve quindi trovare i soldi è il loro lavoro».
«Spiace rovinare l’illusione della minoranza del Pd» è il commento che affida però all’Espresso Giorgio Airaudo, ex Fiom, deputato di Sel: «Ormai il danno l’hanno fatto votando la legge delega, e il governo certo non cambierà nulla dei decreti anche nel caso che dalla Camera arrivi una qualche indicazione in questo senso, come auspicato da Damiano». «Hanno fatto male i loro calcoli, e ormai il danno è fatto» continua Airaudo, «ed è inutile che ora si stupiscano del fatto che il governo abbia esteso l’abolizione dell’articolo 18 anche ai contratti collettivi: era quello il vero interesse di Confindustria».
La novità, infatti, e su questo punto batte Airaudo, è che il meccanismo della mobilità che per adesso scatta in tutte le aziende sopra i 15 dipendenti in caso di licenziamento collettivo, cioè di due o più lavoratori, non esisterà più e le aziende potranno avviare contemporaneamente più licenziamenti individuali, privando le organizzazioni dei lavoratori del potere di trattativa che aveva spesso evitato chiusure o ridotto il numero di licenziamenti («È il caso delle acciaierie di Terni», ricorda Airaudo), o applicato criteri di solidarietà intergenerazionale, spingendo ad accettare un accordo, che diventava una sorta di scivolo, i lavoratori con più anzianità, che quindi avevano anche diritto a più ammortizzatori, più mobilità appunto, e mantenendo a lavoro i più giovani. «Ora i sindacati e i lavoratori» dice Airaudo, «saranno sotto ricatto, perché l’azienda potrà dire “o ci mettiamo d’accordo così, oppure io vado avanti con i licenziamenti individuali che so già quanto mi costano”. Damiano si illude se pensa così di rifarsi la faccia e che il governo, su questo, tornerà indietro».