Jean-Christophe Bailly, l’istante furtivo del non umano

Filosofo, scrittore, poeta francese, Jean-Christophe Bailly è stato a lungo docente di Storia del paesaggio all’École Nationale Supérieure de la Nature et du Paysage di Blois. I suoi volumi, ibridati di generi, consentono di avventurarsi in meandri solenni e a un tempo di immergersi in dettagli sofisticati. In Italia è arrivato in traduzione da qualche anno, tra gli altri sono comparsi L’apostrofe muta. Saggio sui ritratti del Fayum (Quodlibet, 1998), L’istante e la sua ombra (Bruno Mondadori, 2010), Il tempo fermato. Piccola conferenza sulle immagini (BookTime, 2012), Il partito preso degli animali (Nottetempo, 2015), La frase urbana (Bollati Boringhieri, 2016).

Ha scritto anche per il teatro, fra tutti per eleganza speculativa, si pensi a Pandora (Christian Bourgous Éditeur, 1992), in cui racconta due storie «incompiute», quella di Piero della Francesca, chiara e lineare, e l’altra, a partire dal mito greco, complessa e articolata questione nella domanda così umana «Che cos’hai fatto?» cui non si riesce a rispondere se non in maniera imperfetta, smarrita.
Strade, ombre, punti di fuga, viaggi, mani sono solo alcuni dei chiaroscuri concettuali depositati nelle sperimentazioni di Bailly, intarsi rigorosi tra immagine e parola.

Ora le edizioni Contrasto pubblicano Il versante animale (pp. 94, euro 18.90, traduzione di Matteo Martelli), ancora una volta tra letteratura, filosofia e arti visive, che condensa in modo decisivo la dedizione che negli anni l’intellettuale francese ha avuto per il vivente. A impreziosire l’edizione le foto in copertina di Georges Shiras che, a fine Ottocento, in Pennsylvania, aveva ipotizzato un metodo per fotografare gli animali.

L’audacia estetica di Bailly, per cui il pensiero è «montaggio spontaneo», insieme alla sua passione per la storia dell’arte, è più riconoscibile sullo sfondo teorico di questa ultima traduzione in dialogo carsico con i lavori di Jacques Derrida e quelli di Gilles Deleuze e Felix Guattari.
Oggi è ospite a Roma nell’ambito della fiera «Più libri più liberi» (ore 17.30, Sala Elettra) insieme ad Andrea Cortellessa.

«Il versante animale» è un saggio edito in Francia per la prima volta nel 2007 (poi nel 2018 per Bayard Editions). Significativo nella sua produzione, si tratta di un testo evocativo e poetico che racconta di una speciale epifania verso i non umani. Come lo sbucare, nella notte, di un capriolo in tutta la sua tremante presenza. Cosa l’ha commossa?
Questo incontro notturno con un capriolo su una strada di campagna è avvenuto quando avevo già scritto gran parte del libro, ma per il lettore agisce all’inizio, come un’apertura. Ed è quello che è stato per me nella sua realtà viva: anche se ho potuto vedere molti animali, in Africa per esempio, l’apparizione di questo capriolo quella notte mi ha particolarmente commosso e cerco di spiegare cosa ho provato e perché ho avuto l’impressione di essere stato gettato grazie a lui sulla soglia di un altro mondo, o di un’altra versione del mondo. Questa sottile crepa temporale l’ho vissuta come una conquista.

Lei scrive che «esistono solo passaggi, sovranità furtive, occasioni, fughe e incontri». Il concetto di «aperto» con cui ha a che vedere l’animale significa anche la libertà di quel passaggio sovrano?
La maggior parte dei nostri incontri con animali selvatici sono furtivi, anche se a volte, come ovviamente con gli animali domestici, il rapporto può instaurarsi. Tuttavia ciò che abbiamo di fronte a noi è sempre un’assoluta differenza. Anche se lo dimentichiamo, il gatto, il cane, il cavallo arrivano a ricordarcelo. Incontrare gli animali, vederli esistere e ancor di più incontrare il loro sguardo, è entrare in un piano di esistenza in cui ci troviamo di fronte a una sorta di immediatezza dell’ignoto, come su una soglia che non possiamo non varcare. E in questa dimensione sconosciuta l’animale, qualunque esso sia, sembra sempre di essere a casa sua. In ogni caso, è dall’altra parte, da un’altra parte, in quell’«aperto» di cui parlava Rilke. E lì, per noi, è libero.

Da Piero di Cosimo a Caravaggio, sono numerose le suggestioni estetiche di cui si serve per descrivere l’intensità dello sguardo. Vedere, osservare, trafiggere e abbracciare. In quanti modi si può raccontare il visibile?
C’è un disagio o una premura nello sguardo animalesco, e l’occhio dell’asino di Riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio (ma avrei potuto parlare anche dell’asino che sta dietro al Pierrot di Watteau) guarda con forza esemplare. Cosa accade tra questo sguardo e il nostro? Cosa succede al visibile quando sappiamo che è osservato da altri oltre a noi? Cosa vedono? Non lo intendiamo bene, ma il solo pensiero di questa estensione dello sguardo allarga il visibile, lo emancipa.

Il suo lavoro sulle immagini è presente anche nel modo che ha di trovare connessioni. Il movimento del pensiero è sempre un’aperta conversazione?
Il pensiero che nasce camminando, che nasce a contatto con le cose o che si dispiega nella scrittura è sempre solitario, eppure questa solitudine non è sola – è piuttosto invasa, il pensiero rimbalza di connessione in connessione.
«Connettersi all’infinito» diceva Hölderlin, questo è o dovrebbe essere il movimento. Così, lungo il percorso, incrociamo tante immagini, nomi, che nascono spontaneamente: le porte sono spalancate.

Tra riserve naturali e allevamenti intensivi, molti sono i modi in cui l’arroganza antropocentrica si manifesta. Come si misura politicamente con questo dolore animale?
Gli allevamenti intensivi da un lato e la distruzione della terra che rende possibile la vita agli animali selvatici dall’altro sono entrambi scandalosi. È pazzesco vedere la fine di certe specie, sia che godano di prestigio (come la tigre) o meno (come molti insetti). È assurdo che di fronte a questa minaccia che, nel tempo, porta con sé lo spettro dell’annientamento dei biotopi e dell’estinzione generalizzata della fauna selvatica, l’essere umano non faccia nulla, o quasi. Chi è consapevole del pericolo e lo rende noto, viene ascoltato solo debolmente da chi è al potere e questa è una tragedia. È chiaro che comportamenti e abitudini dovrebbero essere completamente mutati, ma ciò non può essere fatto nell’ambito del capitalismo: liberale o statale che sia, è il braccio armato dell’arroganza antropocentrica e non ha altro fine che la continuazione del suo regno.

L’interesse per i non umani arriva da lontano, puntiglio che si avvia dall’enigma del vivente. Nei saggi contenuti nel suo volume «Il partito preso degli animali» possiamo inquadrare ciò che indagava tra il 2003 e il 2011, proprio mentre licenziava «Il versante animale». Che cosa è cambiato oggi nelle sua visione?
Tra quegli anni e oggi la differenza è che la situazione è ulteriormente peggiorata e la consapevolezza del disastro ecologico è aumentata. Di conseguenza, c’è un’ondata di pubblicazioni dedicate agli animali (o alle piante) e alle forme che danno alla vita, cosa che non avveniva prima, anche solo dieci o quindici anni fa. Vedere ciascuna di queste forme di vita come un punto di intensità e ogni intensità come resistenza è ciò che penso ancora, ma sotto un cielo oscurato.

 

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