In una fotografia di Oggetti in meno del 1966, allestiti nello studio di Michelangelo Pistoletto, campeggia su una parete una gigantografia tratta dal ritratto fotografico – apparso su «Metro» nel 1962 a firma Ed Meneeley – di Jasper Johns: una presenza ingombrante, con un preciso significato simbolico, che dice molto su quanto il suo lavoro contasse per gli artisti italiani, non solo per i pittori.
Parimenti, l’anno successivo, quel foto-ritratto è al centro di un’opera di Giulio Paolini, ricoperta di pittura blu e di una costellazione di stelle, incollata su un supporto dipinto allo stesso modo. Non erano mancate, in quegli anni, citazioni puntuali, da Gino Marotta a Claudio Parmiggiani, successive alla mostra personale di Johns alla Galleria del Naviglio nel marzo 1959; ma persino Jannis Kounellis, vedendo Paintings with Two Balls del 1960, aveva preso spunto per un intervento dentro una stanza d’albergo, nel 1976, fendendo orizzontalmente una parete e infilandovi una pallina di celluloide. Si sarebbe tentati di aggiungere alla lista Lucio Del Pezzo, con i suoi assemblaggi che parevano una tesi visiva sul nesso, individuato dalla critica, fra la pittura di Johns e la metafisica dechirichiana.
Una nuova superficie 1958-’66
La lezione di Jasper Johns, però, aveva agito a livello più profondo, sul crinale fra riflessione concettuale e pratica della pittura vera e propria, ed è proprio a questo tema che è dedicato il libro di Flavio Fergonzi edito nei «Pesci Rossi» Electa: Una nuova superficie Jasper Johns e gli artisti italiani 1958-1966 (pp. 208, euro 25,00). Attraverso tre casi esemplari (Piero Manzoni, Mario Schifano e Paolini), emblematici di tre capitali dell’arte contemporanea italiana (Milano, Roma e Torino), vengono declinati tre modi di fare i conti con un artista di cui si vedono soltanto le opere, dal vero o in riproduzione, senza mai incontrarlo di persona. Nei suoi quadri si potevano trovare conferme alle ipotesi di azzeramento dell’immagine (Manzoni); una risposta alla reintroduzione di valori iconici su una superficie «compatta e autosignificante» come una cancellazione (Schifano); spunti impliciti sul linguaggio e la sua autoreferenziale messa in scena (Paolini). Non si può prescindere da Three flags guardando l’incastro di tre tele rovesciate una dentro l’altra di un’opera di Paolini del 1962; così come certe bande a smalto bianche e rosse dipinte da Schifano traducevano ritmi e scansioni della bandiera americana con potente impatto pittorico.
Ma il punto non è trovare una rispondenza puntuale coi dipinti di Johns circolanti nello Stivale, piuttosto focalizzare le domande che sollecitavano o le risposte offerte alle tensioni concettuali degli artisti. Tutto sta nel modo di guardare a un artista d’Oltreoceano con il filtro della cultura visiva europea, desumendolo dall’auscultazione delle opere stesse: la risposta suggerita da Fergonzi, infatti, non sta tanto nelle dichiarazioni degli artisti (che pure non mancano) ma nello scorgere un intertesto visivo nel lavoro artistico, specie quando la pratica contraddice la dichiarazione di poetica. Certo, il gigantismo dei quadri giunti dall’America non poteva lasciare indifferenti – nonostante pochi se ne fossero accorti, se non con un certo fastidio, alla sua prima apparizione alla Biennale del 1958 – ma molte opere di Johns furono viste tramite riproduzioni in rivista – con lo scarto percettivo fra bianco e nero e quadricromia –, fino alla serie di diapositive a colori che Ileana Sonnabend proiettava per artisti, critici e collezionisti nella sua casa romana. Lì si trovava una risposta a un «divorzio», espressione frequente negli scritti di Fergonzi, «tra il significato dell’immagine stessa e il significato della sua stesura pittorica», e sul senso da dare alla vibrazione retinica del colore applicato su tela in alternativa alla «superficie-luce» europea (da Klein fino a Dorazio), dando corpo alla pittura monocroma.
Manzoni lo aveva capito in anticipo sugli altri: quella era la via per ragionare sulla superficie uscendo dalla dialettica Burri-Fontana, ragionando sulle griglie strutturanti del campo. Eppure, rispetto a Rauschenberg, che si poteva leggere secondo il filtro dell’Informale e dell’assemblaggio, John sfuggiva a un possibile incasellamento entro categorie critiche note. Del resto erano gli stessi anni in cui si giocava anche un’altra partita, facendo i conti con Bacon e Sutherland, intorno alle possibilità di un nuovo «racconto», che Johns invece recisamente negava con la tautologia del linguaggio e la banalità iconografica.
Per molti aspetti questo testo di Fergonzi, nato come saggio in rivista (di cui mantiene il ritmo e il tempo narrativo) e poi convertito in volume, costituisce un caso inedito nel panorama italiano degli studî. Non è l’ampiezza dell’erudizione che si riversa in queste pagine o nelle fitte, lunghissime – quasi ipnotiche – note che lo chiosano, ma il tentativo di connettere su una tastiera complessa un affresco corale intorno a un tema apparentemente di dettaglio a farne un punto di riferimento di metodo e di interpretazione per gli studi sul Novecento. Di fatto si tratta dell’unico libro che, dentro e fuori dallo specifico dei rapporti di Johns con l’Italia (e viceversa), affronti con ampiezza problematica uno snodo cruciale come la fine degli anni cinquanta, al crepuscolo dell’Informale, e l’avvento dei Sessanta, fra recupero del Dadaismo storico e del primo Surrealismo, sullo sfondo dell’avvento della Pop Art.
C’è una raccomandazione che risuona nelle orecchie di chi ha seguito le lezioni universitarie di Flavio Fergonzi: abbassare lo sguardo all’altezza degli oggetti. Era l’invito a fare i conti con le opere nella loro fisica concretezza di prodotti figurativi che, prima di una lunga storia esterna, hanno avuto una loro genesi interna, attraverso cui passa un momento di cultura visiva, con il quale fare i conti cercando di rispondere a quesiti elementari quanto essenziali di una successiva costruzione storiografica: dare una data, identificare un soggetto, stabilire una serie cronologica, e attraverso queste operazioni calarsi nelle logiche interne che governano il lavoro degli artisti. E a quel punto chiedersi che eco potevano avere avuto sulla cultura del tempo e il loro riverbero di lungo periodo.
Occhio «antico» sul contemporaneo
Era il tema portante di Filologia del Novecento, un volume di saggi (pubblicato da Fergonzi nella stessa collana Electa nel 2014) centrati sulla chiarificazione di un metodo di indagine , con il quale si chiudeva simbolicamente una stagione di studî sulla prima metà del Novecento, mostrando come si potesse studiare un’opera contemporanea con gli stessi strumenti con cui lo storico dell’arte affronta un’opera antica. Era la sfida di tornare alle opere, dopo un tirocinio sulle fonti scritte nel decennio in cui si era scoperto il lavoro di Francis Haskell. Costituiva a quel punto una scommessa verificare la tenuta di quegli strumenti d’indagine misurandosi con decenni recenti, con artisti talmente consapevoli delle regole del gioco da cercare di mascherare il più possibile le proprie fonti, se non al punto di operare un vero e proprio depistaggio. Eppure, intrecciando le parole della critica e i non detti degli artisti, l’intertesto viene a galla, come dietro un’importante dichiarazione di Schifano del 1961, resa nota da Maurizio Calvesi nel 1990: «il quadro è una possibilità che mi è stata offerta dalla memoria di ciò che mi attira e respinge a volte, per strada, ovunque: le occasioni del cartello, le proposte del manifesto, l’invito della segnaletica e altre cose che vedo esistere».