Se credete che l’intento di questo contributo sia quello di intrattenervi parlandovi di succulente ricette medievali, lasciate ogni speranza: per quanto la materia culinaria sia da qualche anno di gran moda e sulla ‘bocca’ di tutti, siete sulla cattiva strada. Oggi parleremo di banche, ma non di quelle dei giorni nostri (ché parlare di banche a coloro che il sistema bancario se lo sono ‘inventato’ in senso letterale è un po’ come pretendere di fare catechesi al papa!), ma delle banche del bel tempo che fu…
Uno dei cardini della visione storiografica vichiana è il principio della ripetitività della storia: questa formulazione è meglio nota come ‘teoria dei corsi e ricorsi storici’. In sintesi, Giovan Battista Vico sosteneva che alcuni accadimenti storici sono destinati a ripetersi ciclicamente, con le stesse modalità, anche a distanza di secoli; e ciò non accadrebbe per caso, ma in base ad un preciso disegno della Provvidenza. Orbene, volendo cercare un precedente da accostare alle vicende che in questi giorni vedono tristemente coinvolto il MPS, la banca ‘vivente’ più antica del mondo, è apparso chiaro fin da subito che non c’è bisogno di cercare molto lontano in latitudine e longitudine: la storia della Toscana offre ‘exempla’ illustri di disastri di pari portata. Tra l’altro, per trovare un precedente autorevole e di pari incisività non c’è bisogno di allontanarsi da Siena, quanto piuttosto di guardare molto indietro nel tempo e frugare con la mente nelle pieghe più riposte della storia: questa è infatti la vicenda (poco edificante) di una banca senese che nacque, prosperò e si spense prima dell’avvento della Banca senese per antonomasia, cioè prima del MPS.
È infatti tra la fine del ‘200 e gli inizi del ‘300 che si consuma il fallimento di quella che è passata alla storia come la più grande e importante organizzazione bancaria europea del Duecento, la cosiddetta ‘Gran Tavola’ dei Bonsignori (come la chiamarono i suoi fondatori), le cui tristi vicende furono tuttavia oscurate nella memoria dei posteri dai casi occorsi, in pieno Trecento, ad altri Istituti di credito di maggior fama, in particolare i Bardi e i Peruzzi di Firenze.
Le origini familiari dei Bonsignori si perdono nella notte dei tempi: il capostipite e fondatore dell’impresa si chiamava Bonsignore di Bernardo ed era – secondo alcuni – un mercante senese, – secondo altri – un rampollo di piccola nobiltà feudale; di certo era un uomo di molteplici risorse, munito di un ingente patrimonio immobiliare e assurto a ragguardevole ricchezza grazie alla gestione dell’appalto della dogana del sale di Siena e Grosseto. I suoi figli, Orlando e Bonifazio, verso il 1235 ereditarono la compagnia già avviata dal padre e seppero indirizzarla verso una crescente prosperità, in particolare grazie al favore loro accordato (non si sa come e perché) da papa Gregorio IX prima e Innocenzo IV poi, dai quali ebbero in gestione tributi e capitali pressoché illimitati in qualità di ‘campsores’ (cioè di cassieri): aver monopolizzato il titolo di ‘banchieri del papa’ era in effetti un fattore di fondamentale importanza per la mentalità del secolo, perché permetteva loro di liberarsi dal marchio infamante di usurai. Una volta penetrati nel ‘forziere’ della Camera apostolica, considerato il ‘sancta sanctorum’ della finanza internazionale (la Sede pontificia era una potenza economica più che spirituale, considerando che il gettito proveniente da decime, razioni e censi era a dir poco impressionante), fu molto facile per i Bonsignori ampliare la compagnia e conquistarsi la fiducia dei maggiorenti di mezzo mondo, trasformando la ‘Gran Tavola’ nella banca europea più potente del ‘200, un ‘desco’ (‘si nomen est omen’) a cui si accostarono, attinsero a piene mani e ‘mangiarono di gusto’ le maggiori personalità politiche e istituzionali del tempo.
Nel 1255, morto il fratello, Orlando riorganizzò la società, aprendo i battenti a nuovi ‘investitori’, sia a parenti sia a mercanti disposti a mettersi in gioco e a investire i loro capitali in virtù del buon nome e delle capacità politico-gestionali del suo ‘leader’. La frequentazione della ‘casta’ e i contatti col papa e con re Carlo IV d’Angiò permisero a Orlando di ampliare oltre modo le sue relazioni e di accumulare crediti politici e finanziari illimitati, conquistando nuovi mercati e nuovi clienti, tra cui re, prelati, nobili, mercanti grandi e piccoli, cui era concesso – oltre al prestito ‘stricto sensu’ – il servizio di cambio, attività che consentiva all’istituto di racimolare ingenti profitti. L’intesa instaurata con papa Clemente IV gli fruttò anche vantaggi personali: ad esempio il pontefice gli riservò una corsia preferenziale quando, caso unico a Siena, lo escluse dal boicottaggio indetto contro i mercanti-banchieri senesi di parte ghibellina. E dire che nel 1260 Orlando aveva preso parte alla battaglia di Montaperti, sbandierando apertamente le sue simpatie per la causa ghibellina, senza preoccuparsi delle conseguenze…
Il successo della Gran Tavola era, in verità, strettamente legato al carisma di Orlando, che governava la compagnia con rigore, seguendo un ‘target’ di tipo ‘personalistico’, senza mai delegare a terzi: possiamo dire che la banca si identificava sostanzialmente con la figura del suo ‘top manager’, cosa che gli ha fruttato ‘a posteriori’ l’epiteto di ‘Rothschild del Duecento’. Inoltre, Orlando sommava ad un indiscutibile fiuto per gli affari un finissimo talento politico, che gli permise di inserirsi da vero protagonista nei giochi della politica internazionale, riuscendo a intessere una fitta rete di relazioni diplomatiche e a ridisegnare lo scacchiere geo-politico del tempo. La fiducia che i clienti transalpini gli concessero, abilmente capitalizzata, gli consentì inoltre di mettere le mani sugli affari esteri più lucrosi del momento e di far crescere l’Istituto su scala internazionale grazie alla diffusione di un’organizzazione capillare e al dislocamento di varie succursali sulle principali piazze finanziarie europee (Roma, Genova, Bologna, Pisa, Marsiglia, Parigi, Londra, la zona della Champagne). Insomma un successo senza precedenti!
Ma, quando Orlando morì, nel 1273, si innescò all’istante un processo implosivo che portò in pochissimo tempo al disfacimento e al tracollo della sua creatura: la ‘Gran Tavola’ aveva perduto il suo elemento unificante, il cuore e l’anima di Orlando, e i suoi successori non avevano la caratura morale e intellettuale per reggere le redini della situazione. La direzione della compagnia passò in mano al figlio Fazio, che privo dei talenti e dei carismi paterni vide decrescere le relazioni personali abilmente intessute dal genitore. Nel frattempo era mutato anche lo scenario economico-finanziario, segnato dall’avanzata di nuovi protagonisti e dal diffondersi di una concorrenza sempre più spietata e aggressiva, ‘in primis’ quella dei mercanti-banchieri fiorentini, che (con la loro fortissima moneta, il fiorino d’oro) sottraevano quote di mercato ai concorrente senesi, destinati a rimanere al palo.
Per salvare la banca si tentò di tutto: nel 1289 la ‘Gran Tavola’ cambiò volto, venne rifondata col nome di ‘Società dei figli di Bonsignore’ e ricapitalizzata; uscirono alcuni soci storici e ne entrarono altri, portatori di nuova liquidità, ma l’intervento non ebbe successo: mancava quel collante, quella ‘auctoritas’ rappresentata dalla figura di Orlando. Si susseguirono maneggi e contrasti, controlli incrociati, tentativi di ‘commissariamento’ che finirono per ‘ingessare’ la banca: fu l’inizio di una crisi irreversibile, che determinò la perdita di contatti e contratti, a esclusivo favore della nuova finanza fiorentina. Nel 1298 i soci firmarono una petizione con cui chiedevano al Comune di Siena d’intervenire presso i creditori per ottenere una moratoria, ma questi la respinse sulla base del principio della responsabilità solidale. Nel 1301 i beni della compagnia furono sequestrati, la famiglia Bonsignori condannata e bandita da Siena, la società liquidata. Anni dopo la Camera apostolica chiese la solvenza di un credito risalente ai tempi di Innocenzo IV (pari a 80.000 fiorini d’oro): i malconci discendenti dei Bonsignori (pungolati dal Comune che temeva la scomunica cittadina) riuscirono ad assolvere ai loro obblighi solo nel 1353!
È opinione di alcuni storici che la somma dei problemi di cui sopra sia stata amplificata dall’incapacità di recuperare i vecchi crediti con una conseguente crisi di liquidità, cosa che avrebbe portato allo stallo finanziario e poi a quel dissesto che si consumerà nei primi anni del Trecento. Tuttavia, alcuni elementi tendono a offrire una lettura più sfumata dell’intera vicenda: le testimonianze rilasciate da alcuni soci firmatari dell’atto di petizione del 1298, conservate dalla documentazione depositata presso l’Archivio di Stato di Siena, dicono chiaramente che ‘dicta societas nec fallit nec fallere potest propter impotentiam sed propter discordiam, et propter illos qui optent dicte societatis destructionem’ e cioè: “detta compagnia non fallisce e non può fallire per incapacità di adempimento, ma per via dei contrasti interni, e per colpa di coloro che vogliono la distruzione di detta società…”.
Già la ‘discordia’! O meglio la ‘divisio’, cioè la figura femminile che nell’Allegoria del ‘Cattivo Governo’, vestita con un abito a bande verticali bianche e nere (rovesciamento della balzana senese), siede alla destra del diavolo bicorne tra ‘furor’ e ‘guerra’, con una sega stretta tra le mani.
Chiaro monito per tutti!