In estasi

In un libro fondamentale, ricostruiti i rapporti tra Grecia antica e sciamanesimo. L’Oriente era più prossimo all’Occidente di quanto crediamo. Dialogo con il curatore, Angelo Tonelli

Dal mondo dei segni, presi nel formicaio metropolitano, siamo ormai sradicati: cosa mi dice quell’albero?, e la biforcazione nel volo della gazza come s’installa nel mio fato?, e quel fiume in cui ho nuotato da bambino?, che connessione c’è tra il mondo zodiacale e l’orario di lavoro? Un secolo fa, con illuminata violenza, Aby Warburg sintetizzava così il nostro smarrimento: “Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto fra l’uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera o per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide”. D’altronde, nella Terra desolata Thomas S. Eliot, poeta sciamanico, riconosce che dal Tamigi “le Ninfe sono partite”, “il fiume non trasporta che bottiglie vuote, carte da salumaio/ fazzoletti di seta, scatole di cartone, mozziconi di sigarette”. Il rito si compie per lo più al ristorante, il cibo riguarda l’enogastronomia e non più la teologia, il credo è sbendato di senso, sacro è una parola usata per alzare il tono del dibattito. Pieni di noi, non sappiamo chi siamo, “l’oggi è una civiltà in cui gli emblemi primi della poesia sono disonorati; in cui il serpente, il leone e l’aquila appartengono al tendone da circo; il bue, il salmone e il cinghiale all’industria dei cibi in scatola… il bosco sacro alla segheria”, scriveva Robert Graves, molto tempo fa, nel 1948, in un libro memorabile, La Dea Bianca. Così, l’essenziale è relegato nell’ambito dell’inutile, i misteri sono delegati ai pacchi regalo, al gusto dell’enigma preferiamo l’energumena brutalità della ragione, le regioni superficiali dell’essere. In questo precipizio, uno scorticamento dei sensi, l’opera di Angelo Tonelli è fondamentale. Allievo di Giorgio Colli – che ha dimostrato il genio della sapienza in favore del ‘progresso’ della filosofia –, è tra i più grandi grecisti del nostro tempo: ha tradotto, tra l’altro, tutti i tragici e l’opera di Empedocle per Bompiani, Le parole dei sapienti e l’opera di Eraclito per Feltrinelli, gli Oracoli caldaici per Rizzoli. Nel 2015, con Eleusis e Orfismo, ha raccolto le testimonianze sui “Misteri e la tradizione iniziatica greca”; con Negli abissi luminosi (edito da poco, per Feltrinelli), si sporge più in là, traducendo i reperti che documentano “Sciamanesimo, trance ed estasi nella Grecia antica”, da Dioniso ad Abaris, “posseduto dal dio” (Licurgo), in cui “saldamente si connettono Grecia arcaica, Siberia orientale, Mongolia, Cina e Tibet” (Tonelli). Il libro, che sviscera un’antica intuizione di Tonelli (e non solo sua), cioè che i misteri della Grecia antica siano intrisi di sciamanesimo e che tra Oriente e Occidente più che una artata separazione ci siano continui ponti, e interlocuzioni più che interdizioni, è straordinario, necessario, decisivo. Al di là della ‘cultura’ – i testi di Giamblico che spiegano le “molte forme di possessione divina” sono miliari – il libro di Tonelli va ‘usato’ – e abusato – per tornare alla natura dell’estasi, per capire che la mania ha la preminenza sul logos, che l’enigma precede il principio di non contraddizione. D’altronde, è lo stesso curatore/traduttore/poeta a pretenderlo, fin dalle prime pagine: “In Occidente e nel resto del mondo assoggettato al modello occidentale si è assistito nel corso della storia e negli sviluppi della cultura, ovvero della mente collettiva, a un progressivo ‘furto d’organo’: ovvero a una castrazione antropologica dell’umanità, vale a dire all’amputazione del centro più profondo degli individui che li connette all’armonia segreta del cosmo. Ciò è avvenuto attraverso il silenziamento o la caricatura o la ghettizzazione di tutte le esperienze mistiche, iniziatiche, sapienziali ben radicate nel nostro Occidente greco e magnogreco, a sua volta originariamente connesso con il sostrato sciamanico e sapienziale eurasiatico”. Dunque, ho chiesto udienza al sapiente.

Riassumo alcuni contrasti in cui il tuo studio ci fa precipitare: logos vs. mania e trance; principio di non contraddizione vs. iniziazione ai misteri; dialogo vs. estasi; scienza vs. mistero. Questi contrasti paiono stare insieme nella Grecia antica… eppure confondono chi ha una idea ‘olimpica’ della grecità, d’accademia. Cosa è accaduto?

È accaduto che prima delle intuizioni di Nietzsche sulla complementarietà tra principio apollineo di equilibrio e misura e pàthos dionisiaco aorgico e smembrante, e prima che un razionalista illuminato, E. Dodds, scrivesse I Greci e l’irrazionale, si era affermata, salvo rare e minoritarie eccezioni, una visione unilaterale della grecità come culla della razionalità e della forma, visione di cui erano campioni il neoclassicismo e Winckelmann, e che trova ferventi epigonici sostenitori anche ai giorni nostri. Dopo Nietzsche e Dodds, grazie agli studi di Kereny, Eliade, Couliano, e soprattutto di Giorgio Colli, e anche agli apporti della scuola junghiana, si è capito che la civiltà greca è invece un esempio di perfetta compresenza delle polarità a cui fai riferimento. Basti pensare alla ricerca colliana sulla nascita della filosofia, che rintraccia l’origine della ragione nel mito della Sfinge e nella sfera dell’enigma, e la sua rivalutazione dei Sapienti presocratici, in particolare Parmenide, Eraclito, Empedocle, che unificavano lógos e noús, visione (Dioniso) e parola (Apollo); o alla sapienza intuitiva di miti che unificano coscienza e Ombra (Edipo), e danno voce alle concrezioni immaginarie più profonde e infere (il mito di Persefone e Hades, di Perseo e la Gorgone, le Erinni-Eumenidi eschilee). E così via.

Sciamanesimo greco: suggerisci un tempo in cui al centro ci sono i misteri e l’esperienza sciamanica, che unisce la Siberia a Tebe, l’India alla Grecia. Che ‘prove’ abbiamo di questo passaggio di sapienze?

Come già segnalavo in altri miei libri a partire dal 1993, focalizzando la connessione tra Sapienza greca e Sapienza orientale in Eraclito, così vicino al taoismo, e in Parmenide, così vicino alle concezioni delle Upanishad, già M. L. West, nel suo Early Greek Philosophy and the Orient aveva ricondotto le vistose convergenze tra spiritualità dei Sapienti (i così detti Presocratici) e analoghe tradizioni orientali al comune sostrato sciamanico panasiatico, o meglio eurasiatico, che costituiva il trait d’union tra Sapienza d’Oriente e d’Occidente: “Le allucinazioni degli sciamani in Siberia o nell’Altai hanno qualche effettiva relazione con il mito greco? Penso di sì. C’è motivo per credere che in epoca classica la pratica e l’ideologia sciamanica si diffusero attraverso le steppe nei territori settentrionali delle tribù indoeuropee, dall’India nordoccidentale e dalla Bactria fino alla Scizia e alla Tracia”.
Da un punto di vista storico “L’esistenza della via commerciale (verso Oriente n.d.c.) è confermata dai ritrovamenti di prodotti dell’artigianato greco-scitico (soprattutto specchi) lungo il Don, il Volga e nella regione degli Urali…L’area uralica fu interessata fin dalla preistoria anche a scambi con l’Oriente e la Cina… La regione degli Orgimpei (popolo dai tratti mongoli, che vivevano nella Baschiria, tra Belaja e Urali) costituiva un nodo carovaniero: Sciti e Greci potevano acquistare l’oro degli Arimaspi, nonché forse la seta cinese, attestata già nel quinto secolo ad Atene… In cambio, oltre agli oggetti di artigianato, i Greci potevano offrire, per esempio, vino e sale. Un ramo della via doveva partire da Olbia, per riconnettersi ai tratti provenienti dagli ‘altri empori’, in particolare dalla foce del Don”. E a favore di un contatto tra sciamanesimo greco e sciamanesimo nordico così si pronuncia Dodds: “Si potrebbe forse sostenere che il comportamento sciamanistico è connaturato alla composizione psicofisica umana, e che quindi qualcosa di simile può essere attestato tra i Greci, indipendentemente da influenze straniere. Ma contro questa tesi si possono portare tre obiezioni: (a) tale comportamento comincia a essere attestato tra i Greci allorché il Mar Nero si apre alla colonizzazione greca, non prima; (b) dei primi ‘sciamani’ di cui si abbia notizia, uno è scita (Abari), l’altro un greco che aveva visitato la Scizia (Aristea); (c) ci sono concordanze in particolari concreti tra lo sciamanismo antico greco-scitico e quello moderno siberiano, sufficienti a rendere piuttosto poco probabile l’ipotesi della semplice convergenza: ad esempio il cambiamento di sesso dello sciamano in Scizia e in Siberia”. Vale la pena ricordare che Erodoto nel libro IV della sua opera parla degli Enarei, gli ermafroditi sciti, sorta di sciamani transessuali, che praticavano la divinazione dopo averla ricevuta in dono da Afrodite. E gli Sciti erano ben connessi in età arcaica con la mitologia e l’epopea ellenica, se si guarda ai loro ritratti in uno dei reperti più straordinari della ceramica, il Vaso Francois, del VI secolo a. C., in cui compaiono i guerrieri sciti Euthymachos, Kimmerios e Tochamis, a fianco degli eroi greci nella scena della caccia al cinghiale caledonio. Anacarsi, databile nel VI sec. a. C., spesso annoverato tra i Sette Sapienti, devoto al culto orgiastico della Grande Madre, era scita e secondo le fonti fu in stretto contatto con la Grecia. Ancora Erodoto nel libro IV, ci racconta che nell’isola sacra di Delos veniva celebrato il culto di due coppie di fanciulle, rispettivamente Iperoche e Laodice, e Arge e Opi, che sarebbero giunte portando doni, fasciati in paglia di grano, da parte degli Iperborei. Ma poiché dopo il primo viaggio nessuna delle fanciulle e dei loro accompagnatori ritornò, decisero di far giungere i doni a Delos attraverso una sorta di staffetta che partiva dalle loro lande misteriose e, attraversando gli Sciti, toccava Dodona, il Golfo Maliaco, Caristo, che era la città più meridionale dell’Eubea, l’isola di Tenos, e giungeva finalmente a Delos. Fondamentale, in questa direzione, il contributo di P. Kingsley, con il suo A Story Waiting to Pierce You, che ha ricostruito, attraverso una ricognizione innovativa della figura di Abaris Iperboreo, la connessione tra sciamanesimo mongolo e pitagorismo magnogreco, e dunque ancora tra Oriente e Occidente. Questa già acclarata connessione è sfuggita o è stata silenziata da studiosi, accademici e non, perché la rilettura della sapienza greca e magnogreca alla luce della profonda affinità con quella orientale obbliga a un rinnovato sguardo: c’è molto Oriente nel nostro Occidente, in particolare greco e magnogreco, e viceversa, nonché nel nostro DNA culturale e spirituale. Questa recuperata vicinanza ci impone di leggere la Sapienza greca e magnogreca in una chiave nuova, perché dobbiamo liberare i sophoí da schemi interpretativi che li riducono a prefilosofi o mistici intellettuali. Essi erano piuttosto i detentori e i comunicatori di stati di coscienza illuminati, supportati sicuramente, in questo loro magisterio, da pratiche meditative e sciamaniche, proprio come accadeva, e accade tuttora, nelle grandi tradizioni orientali, buddhiste, induiste, tibetane, taoiste e così via. Con questo renderemo giustizia non solo alla verità storica e culturale, ma anche al meraviglioso esperimento umano di trascendere la condizione “troppo umana” attraverso discipline spirituali e folgorazioni noetiche ben condensate in stati di coscienza oceanica stabilizzati, che fu tentato e realizzato, agli albori della civiltà, e sopravvive in isole di luce, e ancora irradia, come unico mezzo possibile per ricomporre l’integrità degli umani e consentire la realizzazione di società consapevoli, solidali e illuminate. Prima o poi.

In questa direzione ci conforta un formidabile reperto archeologico, che pur essendo stato catalogato già nel 1954, nel Corpus Vasorum Antiquorum Deutschland, è stato silenziato fino a ora, salvo rare eccezioni. A cavallo tra il V-IV secolo a. C., ben prima della spedizione di Alessandro Magno nelle Indie, di solito considerata terminus post quem della certa esplorazione e integrazione della cultura e della e spiritualità orientale in Occidente, un pittore, con ogni probabilità di nome Dolon, ha magistralmente dipinto in stile realistico e anche allo stesso tempo caricaturale, l’immagine di un guerriero vistosamente mongolo, probabilmente un mercenario. Siamo nella Taranto del Pitagorico Archita, amico di Platone, sapiente, filosofo, musico, matematico e aritmogeometra, allievo di Filolao e Eurito, che fu il comandante militare e leader politico della fiorentissima Taranto nel V-IV secolo a. C. È un documento di eccezionale importanza per comprovare in maniera inconfutabile, icastica, immediata, sia la relazione culturale, commerciale e, come da almeno trenta anni vado sostenendo, spirituale, tra la Grecia, la Magna Grecia e l’Oriente, sia le origini eurasiatiche (altro che ebraico-crisitiane!) della nostra civiltà, che anche in assenza di questo documento sono già acclarate, grazie a esso urlano la propria evidenza anche ai sordi e ai ciechi, o agli struzzi della filologia e della filosofia.

È forse la poesia erede della parola teurgica, della formula sciamanica? Che indizi di tale iniziazione, se ci sono, troviamo nella poesia degli ultimi secoli?

Un libro di Anita Seppilli, significativamente intitolato Poesia e magia, riportava abbondantissima documentazione antropologica di una originaria funzione della parola poetica come formula sonora di incantamento capace di metamorfosare la trama ordinaria degli eventi e di agire sulla Natura. Pensiamo a Orfeo, archetipo o archegete della parola poetica accompagnata dall’apollinea cetra, come autore di incantamenti poetico-musicali capace di commuovere le pietre, convocare gli uccelli, e far guizzare i pesci fuori dalle acque, al suo richiamo.

Uccelli innumerevoli si libravano sul suo capo e dritti i pesci saltavano fuori dall’acqua blu, in alto al bel canto. Sim., fr. 384 Page LOS (=567 PMG)

Se io avessi la parola di Orfeo, o padre, e sapessi persuadere le pietre con incantesimi, così che si mettessero a seguirmi, e sapessi ammaliare chi voglio con le mie parole, lo avrei fatto. Eur., Iph. in Aul, 1211-1214

Ricordiamo anche che Parmenide e Empedocle Sapienter-sciamano cantilenavano in esametri la loro sophia, in un incantamento che doveva “spartire nelle viscere” lo stato di coscienza unitaria, mistica, in essi cui dimoravano. Per cogliere qualcosa del genere negli ultimi secoli dobbiamo pensare a poeti che declinino il linguaggio in una dimensione, e un’aura, mistico-orfica: il Dante del finale del Paradiso e il Leopardi di L’infinito, ma anche l’Eliot dei Four Quartets, Rilke, il Montale di Ossi di Seppia, Onofri. E in primis il più potente di tutti: Dino Campana.

Spesso nelle figure che evochi tutto si gioca in un coagulo di contrasto, nello specchio di Dioniso, che rispecchia e deforma: è come un rito di morte e resurrezione, continuo. Qual è la cosa che più ti ha sorpreso raccogliendo le fonti, il frammento che spiazza il nostro vivere comune?

I frammenti, appunto, sullo specchio di Dioniso.

“Nell’antichità lo specchio anche dai teologi è stato tramandato come simbolo della adeguatezza alla pienezza noetica del Tutto. Per questo dicono anche che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità”.

Il Tutto è l’Uno, e lo specchio è simbolo della adeguatezza del noûs “individuale” alla pienezza noetica dell’Uno-Tutto, perché il noûs è sia la funzione intuitiva del singolo che percepisce l’unità di tutte le cose in uno sguardo interiore metaspaziotemporale, che lo sfondo metafisico unificante le cose stesse. E Dioniso è l’Assoluto che si fa molteplice frammentandosi in una pluralità di riflessi o apparenze che originano perpetuamente da esso: “mutando riposa”, per dirla con Eraclito.

Dioniso infatti, dopo avere posto la sua immagine nello specchio, la seguì, e così fu infranto nel Tutto. Ma Apollo lo raduna e lo riporta alla vita, poiché è dio purificatore e veramente salvatore di Dioniso, e per questo viene celebrato come Dionysodótes”.

Attraverso la disciplina dell’interiorità che si fionda sulla complicità tra Apollo e Dioniso, il Sapiente ricompone nel noûs il Dioniso frammentato, sedimentando lo stato di coscienza unitaria oceanica, collocandosi in limine tra lo sfondo assoluto dello sguardo del dio e la sua immagine pluralizzata nello specchio del mondo, dei mondi. E questa è anche una pratica meditativa. La ricomposizione dell’Uno cosmico nell’Uno interiore, e viceversa, è fonte di gioia, la stessa gioia che veniva donata dall’epopteía eleusina, perché Dioniso è il dio segreto di Eleusis, e, in consonanza con essa, dall’esperienza dell’Uno di Parmenide, Empedocle, Eraclito, di Pitagora, e di tutti gli Iniziati, tra Sapienza e sciamanesimo. Aggiungerei, a corollario, la più folgorante sintesi sapienziale del rapporto tra visibile e invisibile, manifesto e immanifesto, fenomeno e cosa in sé, per dirla con Kant, o espressione e immediatezza, per dirla con Colli un frammento di incerta attribuzione, ma da ascrivere con certezza a uno dei Sapienti greci preplatonici che suona: “Le cose che appaiono sono il visibile degli invisibili”.

Perché abbiamo perso i misteri per strada, avvilendo la mente simbolica, incapaci di decifrare i segni, per lo meno di accorgerci del loro passaggio?

Di fronte al dilagare in Grecia nel IV secolo a. C. del pensiero razionale, con il passaggio dall’epoca dei Sapienti a quella dei filosofi sapienziali come Platone e ancor più alla filosofia intellettuale di Aristotele, il centro interiore degli individui si sposta dal nous alla ratio, e passiamo da iniziati e sapienti che avevano il “misticismo come norma”, per dirla con Zolla, all’Homo Ratiotechnicus: a parte la sopravvivenza carsica della paideía misterica e iniziatica nei Sapienti del Neoplatonismo, del Neopitagorismo, dell’Ermetismo, dell’alchimia, della teurgia, e così via, paideía che riaffiora sporadicamente nella modernità, alla figura del Sapiente, capace di esperienza mistico-noetica, si sostituisce il filosofo, e poi l’intellettuale, araldo e ministro della ratio. Da qui la reclusione del pensiero simbolico nella sfera del sogno e dell’inconscio, e la sua reviviscenza spesso distruttiva nei fenomeni irrazionali collettivi della storia. Adesso, ai prodromi del transumanesimo, la scissione è compiuta, l’uomo rischia di essere diviso dalla sua dimensione simbolica in nome dell’utile rappresentato dalla tecnica e dallo scientismo a essa connesso. Per fortuna ci sono controtendenze, sia nella crescente attenzione per le tradizioni misteriche e iniziatiche che nell’approccio quantistico alla fisica, che richiede una mente ratiosimbolica e intuitiva, capace di contemperare gli (apparenti) opposti, in primis la natura insieme corpuscolare e ondulatoria dei fotoni, o l’entanglement.

Il tuo lavoro, pur accurato, va al di là della ricostruzione ‘storica’. Il tuo libro è una azione da giocare oggi. Almeno, così percepisco anche solo dalle prime pagine della tua introduzione quando accenni agli “effetti devastanti della gestione plutotrogloscientistica dell’epidemia di Coronavirus, che rischia di diventare occasione per una dittatura tecnocratica e vieppiù disanimante su un’umanità già disumanizzata oltre misura”. Dunque, cosa ci resta da fare?

Tornare alla fonte, a quella Sapienza e a quei Misteri, a quei miti e a quei riti delle nostre origini magnogreche e greche che sapevano elicitare la centratura degli umani nel nous, in quel Sé superiore che è il luogo della consapevolezza e del senso di appartenenza al cosmo. In questa fase di emergenza, che è in primis emergenza spirituale e sapienziale per  contrastare la deriva gorgonea e transumanistica in atto, gli Antichi ci riconvocano, nella loro inattuale attualità, a riprendere, mutatis mutandis, quelle pratiche rituali e quelle discipline meditative e catartiche di cui raccolgo testimonianze nel  libro: dalla pratica del silenzio all’incubazione, dalla anamnesi alle pratiche di respirazione diaframmatica, alla riconnessione con il nous attraverso  la danza, la musica, il rito, il simbolo; la filosofia sapienziale, e un arte non disgregata dal tecnonichilismo metropolitano  di avanguardie autocastrate di bellezza. All’involuzione transumanistica e plutosanitocratica e scientistica in atto va contrapposta una evoluzione antropologica che consiste nella rivoluzione copernicana del Centro delle individualità, dall’ego al nous, per porre le condizioni di un reset ecosofico della civiltà, di una rigenerazione civile, economica, politica della società, che può attuarsi soltanto attraverso la rigenerazione degli individui, ovvero dei cittadini e dei governanti, in chiave sapienziale.

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