Luca Monticelli
Da via Veneto a piazza Colonna, ossia dalla sede dei ministeri del Lavoro e dello Sviluppo economico a Palazzo Chigi, c’è poco meno di un chilometro di distanza in linea d’aria. Ma la strada del decreto anti delocalizzazioni si fa sempre più accidentata e difficilmente arriverà sul tavolo del premier Mario Draghi così come l’avevano pensato il titolare del Lavoro del Pd, Andrea Orlando, e la vice ministra al Mise, Alessandra Todde del M5s. E non solo per l’intemerata del leader di Confindustria Carlo Bonomi, che ha bocciato pubblicamente la bozza messa a punto per fermare le imprese in fuga dall’Italia. Al tavolo c’è un convitato di pietra che finora è rimasto in silenzio: Giancarlo Giorgetti. Per lui il testo Orlando-Todde di fatto «non esiste». Dall’ufficio del ministro dello Sviluppo economico dire che filtra irritazione per com’è stata gestita la vicenda, è poco. Una fonte rivela a La Stampa: «Giorgetti non è stato minimamente coinvolto in questa operazione». Non è stato chiamato da Orlando e Todde e non conosce quella bozza che è uscita ripetutamente sui giornali perché lui non l’ha vista.
Il suo silenzio di questi giorni si spiega anche così, non ha intenzione di commentare una proposta dalla quale è stato escluso. Il provvedimento che stanno limando i due esponenti di governo del Pd e dei 5S è costituito da cinque articoli e obbliga le imprese con almeno 250 dipendenti a prevedere un piano di mitigazione dell’impatto occupazionale prima della chiusura. Chi sposta l’attività all’estero deve comunicarlo per tempo alle istituzioni locali, all’esecutivo e ai sindacati. Le aziende che violano le norme finiscono in una black list e non potranno avere accesso a contributi e finanziamenti pubblici per cinque anni. La bozza aumenta di dieci volte il contributo di licenziamento e fissa una multa pari al 2% del fatturato alle multinazionali che non seguono le regole. Quest’ultima sanzione, però, sembra essere uscita dall’articolato.
Il ragionamento che Giorgetti ha fatto più volte e in tempi non sospetti, ancora prima che Confindustria aprisse la querelle sulle delocalizzazioni, parte dal principio che qualsiasi misura introdotta non debba essere punitiva. Altrimenti si corre il rischio «di bloccare le imprese straniere che vogliono investire in Italia». Secondo il plenipotenziario della Lega, nella costruzione di un sistema di incentivi e risorse a favore dello sviluppo bisogna supportare gli imprenditori che puntano sugli investimenti nelle aree di crisi e si impegnano a formare i disoccupati. Il decreto anti delocalizzazioni sarà tra le priorità del governo a settembre, insieme a riforma fiscale, legge sulla concorrenza e nuovi ammortizzatori sociali. Palazzo Chigi certamente non starà a guardare e darà un indirizzo per trovare una soluzione condivisa. Probabile che la discussione possa essere affrontata anche al tavolo con le parti sociali.
Al meeting di Rimini è intervenuto ieri il Commissario europeo Paolo Gentiloni criticando «i toni eccessivi e le polemiche fuori luogo di Bonomi nei confronti del governo». Però, ammette l’ex premier, «avanzare dubbi e chiedere di discutere il tema delle delocalizzazioni è legittimo. Qualcuno pensava di aver risolto il problema qualche anno fa con il Decreto Dignità, evidentemente non è stato così», aggiunge. Secondo Gentiloni è giusto «difendere ogni posto di lavoro, ribellarsi ai licenziamenti via Whatsapp e a questo modo feudale di vivere i rapporti di lavoro. Però non risolviamo il problema congelando quello che c’è – sottolinea – ma attraendo investimenti con la riforma della giustizia civile, con le nuove regole sulla concorrenza, con le politiche attive del lavoro, con tutto quello che ci separa da una economia più sostenibile e competitiva».