Di Dario Di Vico
Matteo Renzi alla fine ce l’ha fatta e sulla Rai il governo ha incassato con ampio scarto di voti l’ imprimatur del Senato. Senza voler sottovalutare il peso numerico della sinistra dem e soprattutto la sua indubbia autorevolezza, gli avversari interni del premier appaiono come quei calciatori più bravi nel rilasciare le interviste pre partita che nel farsi valere nelle mischie sottoporta. Anche Matteo Salvini quando deve passare dalla propaganda spicciola, e spesso scontata, a dare prova di vera incisività politica mostra tutte le sue lacune o comunque i suoi ritardi. I Cinquestelle, dal canto loro, sono bravissimi nell’esercitare la critica feroce del potere fino allo sberleffo ma si perdono un attimo dopo. Così il vero partito di opposizione al renzismo resta il Pil, un partito dannatamente concreto e che non si piega ai desiderata di Palazzo Chigi. Aspettiamo i dati di metà agosto sul secondo trimestre del 2015 ma intanto i riscontri che di volta in volta vengono dalla produzione industriale, dall’occupazione e dagli indici di fiducia ci fanno vivere sull’ottovolante, un giorno sembrano autorizzare l’ottimismo più limpido, il giorno dopo ci riservano una doccia scozzese. E ieri con le ultime rilevazioni sul tasso di disoccupazione è successo proprio così. La verità è che si sta confermando l’intuizione secondo la quale l’economia del dopo crisi sarebbe stata un’altra delle terre incognite alle quali dovremo abituarci. I cicli economici si preannunciano molto più corti, sembra profilarsi una scissione tra recuperi di efficienza e ricadute sociali, i rapporti di potere si spostano a favore delle piattaforme digitali e a discapito dei produttori (tagliando sì l’intermediazione ma non generando nell’immediato ricchezza alternativa). Da cronisti annotiamo come in Italia i bilanci delle banche e delle imprese tornino ad essere lusinghieri — a volte anche in maniera pronunciata — mentre le rilevazioni sui posti di lavoro, la povertà e la condizione del Sud scandiscono il perdurare di un’ampia condizione di disagio. Si è già parlato a lungo delle riprese senza occupazione, il rischio è di trovarci di fronte anche a un ampliamento delle distanze tra vagoni di testa e vagoni di coda. I tempi di trasmissione della ripartenza possono essere più lunghi di quelli che conoscevamo, se non altro perché in materia di occupazione c’è da riassorbire il maggiore stock di cassa integrazione della storia. La fenomenologia della vita aziendale è ricca di spunti: osserviamo, ad esempio, come anche in questo agosto la Electrolux lavorerà senza fermarsi ma questo sforzo non si tradurrà in un aumento delle persone che lavorano perché si tratta di far fronte a picchi di produzione e non a incrementi stabili delle vendite di elettrodomestici. Il risultato è che le imprese in svariati casi hanno timore ad aumentare strutturalmente il perimetro degli addetti perché giudicano i mercati ancora troppo volubili. Anche sul piano delle aspettative delle famiglie non abbiamo conosciuto una vera inversione della tendenza. Si continua a risparmiare tanto — circa un nucleo su due secondo i dati Ixè — ma si agisce così per paura, equivale a mettere sacchi di sabbia davanti alla porta per timore di una nuova alluvione. Di fronte a queste evidenze c’è chi sostiene che fin quando non si detasserà la casa gli italiani non si capaciteranno del tutto che è arrivata davvero l’ora di un cambio di passo anche nei loro comportamenti e nei consumi. Di fronte a un’economia reale così riottosa a farsi dettare i tempi dalla politica, Matteo Renzi ha avuto finora una doppia reazione. Spesso ha pensato di poterle far cambiar verso usando a piacimento la leva della comunicazione (leggi propaganda), negli ultimi tempi però ha iniziato a ragionare in termini di discontinuità politico-culturale. A cambiare la cassetta degli attrezzi. La repentina svolta sulle tasse fa parte di questo percorso, è il tentativo di rispondere alle incognite del Pil con una strumentazione più aggressiva e capace di dialogare con l’Italia profonda. Anche la sortita del sottosegretario Claudio De Vincenti, che ha invitato le imprese a quotarsi in Borsa per salire di taglia e intercettare meglio la ripresa, rappresenta una novità per certi versi inattesa. Ma quello che manca all’appello in questa riconversione di cultura politica è lo stimolo che può venire dal portafoglio di competenze del ministero affidato a Graziano Delrio. Si può (e si deve) rilanciare il mattone impostando però un nuovo modello di business capace di puntare sul privato e scontare il declino dei lavori pubblici. Esistono già delle proposte sensate, si tratta di renderle praticabili. Presto.